C'è un telefono che non smette mai di squillare: è quello del Cinema D'Azeglio. E la domanda è sempre la stessa: «C'è posto per Guanciale?». Che uno parte che vuole fare il rugbista e invece che allo stadio si ritrova la fila fuori dalla sala. Cose che capitano se, oltre che bravo assai, il tuo obiettivo dichiarato è soprattutto uno: «Rimanere per sempre un artista coerente». Una qualità che gli permette di essere credibile ogni cosa che faccia: teatro, cinema, televisione. E che nei giorni scorsi D'Azeglio, lo ha portato a Parma a ritirare il premio per la migliore serie italiana dell'anno a «Un'estate fa» (su Sky e Now) di cui è il protagonista.
«Un'estate fa» tocca i tasti della nostalgia, della memoria. Il tuo personaggio torna letteralmente all'epoca della sua adolescenza. Ma come era Lino Guanciale da ragazzino? Voleva già fare l'attore?
«No, non sognavo di fare l'attore: ero molto attratto dal cinema e dal teatro ma mi guardavo bene dal recitare, avevo un po' timore di infilarmi in un'impresa impossibile. A 16 anni giocavo a rugby, ero nel giro della nazionale, mi sarebbe piaciuto fare il professionista. Poi avevo pensato di fare anche il giornalista e alla fine mi ero deciso: il medico. Ma continuando a scrivere. Però c'era anche un corso di teatro: farlo ha fatto svanire tutti i miei dubbi, le mie incertezze. Nonostante l'ansia, su un palcoscenico mi sono scoperto più libero di essere me stesso: nel mondo fuori si mettono molte più maschere che in teatro».
Che rapporto hai con Parma?
«Un rapporto bellissimo. Tra gli incontri magnifici che ho fatto appena finita l'Accademia c'è stata anche la realtà del Teatro Due. Qui a Parma ho fatto cose importanti per la mia carriera Il modello culturale che con Longhi abbiamo trovato qui, a livello di palco ma anche di formazione, lo abbiamo esportato all'Ert di Modena. Sono molto legato al Due e al “comandante Lallo”, Giancarlo Ilari. Lui e la figlia mi hanno ospitato tante volte a casa loro. ha lasciato una grande testimonianza. E si preoccupava per me: mi offriva sempre delle banane, aveva paura che mangiassi poco...».
Tornando a “Un'estate fa” mi sembra che funzioni perché unisce tante cose: il giallo, il filone nostalgico, il soprannaturale, la tragedia...
«Io sono affascinato dai progetti che ibridano i generi: mescolando le carte si trovano soluzioni nuove interessanti. In questa sceneggiatura ho visto subito una commistione di linguaggi: girarla è stato bellissimo, un work in progress continuo, con gli sceneggiatori che si confrontavano di continuo con noi interpreti. Tutti quanti abbiamo dato il meglio, produttori compresi: ci siamo sentiti parte di qualcosa anche di rischioso. E alla fine siamo stati molto felici del risultato».
Ti abbiamo visto sia in teatro, che in tv che al cinema: cambia il tuo approccio a seconda del mezzo dove ti esprimi?
«L'approccio è simile ovunque: cercare la massima forza e credibilità. È diversa la declinazione, il calibro. A teatro devi creare un rapporto col pubblico, devi “fare guardare” il pubblico. In una serie o in un film il rapporto lo hai con la macchina da presa e in quel caso devi “lasciarti guardare”. ma quello che impari a teatro lo porti sul set: e viceversa».
Quali sono i tuoi obiettivi?
«Essere un buon padre, un buon marito: non sono cose banali. E rimanere un artista coerente. magari scrivendo qualcosa di mio, facendo il regista: ma restando coerente. Non dimenticare mai che un attore parla al pubblico e quando lo fa è un atto politico».