Il diritto di uccidere: i danni collaterali della coscienza
E' sempre la solita vecchia sporca faccenda: la domanda alla base della tragedia greca, il dilemma su cui si basa (senza requie) buona parte del pensiero occidentale. Agli antichi, quelli che ci hanno insegnato tutto, bastavano due parole: <ti draso?>, che fare? E' il momento, l'istante, che torna sempre, implacabile, nei grandi classici: quello in cui nessuna scelta, nessuna opzione, è quella giusta. Non si nasconde <Il diritto di uccidere>, ma dichiara subito la sua tacita provenienza: mettendo in calce un frase (attualissima...) di Eschilo (<in guerra la verità è la prima vittima>), per poi, mentre le vite degli altri scorrono inermi su gelidi visori e occhi senz'anima di microspie e aerei invisibili, lanciarsi senza paracadute sul terreno minato del thriller etico, mettendo in scena un dramma in uniforme sospeso sul filo sottile che divide il vivere dal morire, le regole dell'ingaggio da quelle, non scritte, della morale.
E' una partita che il sudafricano Gavin Hood (che con <Il suo nome è Tsotsi> nel 2006 vinse l'Oscar per il miglior film straniero) gioca contemporaneamente su più tavoli, restando fisso su un solo obiettivo, ma spostando continuamente il punto di vista tra chi (militari, politici, spie e gli inquieti piloti col dito sul grilletto...) si trova, volente o nolente, con gli occhi sul mirino.
Pur di eliminare alcuni tra i più pericolosi terroristi in circolazione pronti a ordinare a minuti un devastante attacco suicida sacrifichereste la vita di una bambina innocente? Il film poggia tutto su questo quesito, semplice e terribile insieme: lo stesso che il regista pone, in tempo reale, ai suoi protagonisti così come agli spettatori, costretti a uscire da una comoda nicchia di neutralità. E' il dato più interessante di un thriller bellico basico ma teso che trasforma un'operazione militare in una questione filosofica, dove donne in divisa (guida il blitz Helen Mirren) che spingono per sganciare i missili e alti papaveri che scatenano invece un osceno scaricabarile, mentono a se stessi calcolando, percentuale su percentuale, i danni collaterali: tutti, tranne quelli della coscienza. Detonata l'attesa, <Il diritto di uccidere> (che ha qualche reminiscenza di <Good kill> e < Allarme rosso>) procede diritto evitando finali consolatori: ma a lasciare l'amaro in bocca basterebbe la smorfia di Alan Rickman, l'attore che ha recitato in questo film sapendo che sarebbe stato l'ultimo. Uno che conosceva esattamente <il prezzo della guerra>. E che lo ha pagato fino in fondo.