Una battaglia dopo l’altra: la grande festa della rivoluzione
C'è la terza guerra mondiale qua fuori.
Paul Thomas Anderson vi invita alla festa della rivoluzione: accorrete numerosi, please. Che il mondo, in fondo, si può cambiarlo pure in vestaglia: parola di DiCaprio (e prima di lui, anche del Drugo Lebowski...).
È un film antagonista e illuminato questo, grottesco e arrabbiato, che spinge, sgomita, sbatte. Pieno di tunnel e famiglie in gabbie, confini e domande di cui ci si è dimenticati la risposta. Incapace di stare fermo anche quando apparentemente «divanato», sempre in fuga, costantemente in movimento, all'inseguimento. Dura quasi tre ore che non sembrano nemmeno due, «Una battaglia dopo l'altra», il grande film sull'America (e contro l'America) girato dal regista di «Magnolia» e «Il petroliere», una delle voci più potenti e corrosive del contemporaneo: un distillato amarissimo e irresistibile di (universale) attualità dove l'intrattenimento «alto» sposa la denuncia, il divertimento d'autore abbraccia la riflessione mai imparziale, la satira danza stretta con l'umanesimo militante. Per raccontare con stile bello e sgualcito come una camicia bianca messa il giorno prima i giorni assurdi e crudeli delle lobby dei suprematisti bianchi (i «Pionieri del Natale», «fantastici»), della pulizia etnica, del patriottismo mal riposto.
In un presente non dichiarato dove non si è mai al sicuro, malato cronico di autoritarismo, un gruppo di attivisti guidati dalla carismatica Perfidia Beverly Hills scatena il caos assalendo centri di detenzione per immigrati, banche e altri simboli di un capitalismo avvelenato: ad accendere la miccia della rivolta è il suo compagno Bob, detto Rocketman, esperto in esplosivi. Ma quando Perfidia viene arrestata, per salvarsi fa i nomi dei compagni di lotta: e a Bob, con la figlia neonata, non resta che fuggire, braccato per sempre dal fanatico colonnello Lockjaw...
Negli echi del rullo dei tamburi de «La battaglia di Algeri», tra suore devote alla «maria» (nel senso della droga) e saggi sensei in salsa tex-mex, Anderson (complice il girl power: si sa, saranno le donne a salvare il mondo...) prende a calci il crepuscolo di una democrazia pigra e rinunciataria, girando un sorprendente film-manifesto iperrealistico, fumettistico e demenziale, ma non per questo meno inquietante, meno profetico. È cinema politico travestito da kolossal mainstream (e viceversa), un combat movie che diventa un melò che va di corsa, «Una battaglia dopo l'altra», abbastanza disilluso (e deluso, ma mai arrendevole) per osservare senza moralismi il tradimento dell'America e i vuoti di memoria della sinistra radicale.
Anti trumpiano, dissonante - come la colonna sonora, presentissima -, sarcastico, il film a cui PTA pensa da vent'anni (lo ha tratto da «Vineland» di Thomas Pynchon , lo stesso di «Vizio di forma») e in cui non rinuncia ad affrontare alcune delle tematiche che gli stanno più a cuore (tra padri, veri e putativi, e mentori), brilla anche grazie a un cast di fenomeni che conta tra gli altri Leonardo DiCaprio (Bob), Sean Penn, villain da antologia, e Benicio Del Toro. Tris d'assi che Anderson cala (insieme a un paio di regine: Teyana Taylor e la giovanissima Chase Infiniti) sul tavolo verde di questo folle mondo. Dove ogni domanda ha una risposta: «Sai cos'è la libertà? Non avere paura di nulla. Proprio come Tom Cruise».
La voce di Hind Rajab: per quanto ci crederemo assolti saremo per sempre coinvolti
Ascoltate questa voce: poi decidete cosa fare. Se continuare a restare in silenzio oppure alzarla, finalmente, anche voi. Dopo avere commosso la Mostra del cinema di Venezia, dove ha vinto, salutato da una standing ovation, il Gran Premio della Giuria, «La voce di Hind Rajab» arriva nelle sale con il peso, a tratti insopportabile, di una storia vera. Così come sono drammaticamente autentiche le telefonate registrate che attraversano - come lame in un corpo inerme - una pellicola straziante capace di sbattere in faccia allo spettatore, impotente quanto i protagonisti, il fallimento dell'umanità: un pugno nello stomaco lungo 90 minuti, un film più necessario che ricattatorio dove la violenza resta fuori dall'inquadratura, ma l'invisibile si scopre, mai come questa volta, inaffrontabile.
Gennaio 2024: alla Mezzaluna Rossa palestinese (omologa della nostra Croce Rossa) arriva la disperata chiamata d'emergenza di una bimba di 6 anni nascosta in un'auto colpita dai tank israeliani...
Rispettate con rigore le unità aristoteliche di tempo e luogo, la tunisina Kaouther Ben Hania gira esclusivamente in interni un film terribile che fa della disperata richiesta d'aiuto di una bimba sola e spaventata il grido - che è impossibile fingere di non avere udito - di un intero popolo martoriato. Strettissimo sui volti, con uso largo ma pulito, non sfacciato, della macchina a mano, «La voce di Hind Rajab», come in «The guilty», rende ciò che avviene fuori campo (l'attesa, i suoni, il silenzio...) preminente - e più sconvolgente - di quello che accade nell'inquadratura, costringendo chi guarda a subire, in un'ansia crescente, lo schiaffo del presente.
E alla fine si esce a pezzi da questo film emozionante e commovente, costretti a domandarsi in quale altro teatro dell'assurdo i militari colpiscano a cannonate le ambulanze e crivellino con 355 proiettili le auto di famiglie indifese. Kaouther Ben Hania si spinge fino ai limiti etici della rappresentazione, ma il suo film, umanissimo prima che politico, ha un'urgenza che corrode l'indifferenza, che reclama, con forza, attenzione: perché come cantava De Andrè per quanto ci crederemo assolti, saremo per sempre coinvolti.
F1, se Brad Pitt scende in pista
La mia recensione di “F1” di Jospeh Kosinski e con Brad Pitt
«Che ci fai qui?».
La tuta come l’armatura, il casco al posto dell’elmo, la pista invece della battaglia: è una gara o è una guerra? Nel romantico inseguire a 300 chilometri orari (e non uno di meno) un momento finalmente perfetto, il cinema sportivo si traveste da combat movie: e nella cinetica seduzione della velocità raccoglie la sfida di un cowboy anni ‘90 dalle gomme mai lisce, in cerca di riscatto e - forse - redenzione. Ha un’anima guerriera e lo spirito del cavaliere solitario lo spottoso (ma non spocchioso) e adrenalinico «F1», il film spettacolare e carenatissimo con cui Joseph Kosinski, il regista di «Top Gun: Maverick», porta sullo schermo curve cieche, piste roventi e leggenda del circus, accelerando allo start per poi toccare il freno il meno possibile. Divertente, ultra brandizzato, molto macho (ma il testosterone, in questo caso, non è un antidoto agli incubi o alla sensibilità), il blockbuster voluto da Apple+ (a oggi è il maggior successo della divisione cinematografica della mela morsicata) celebra la rivincita dei boomer, là dove il rombo dei motori è (per fortuna) ancora più forte di quello dei social.
Come nel sequel di «Top Gun», anche qui tutto comincia con un ritorno: quello di Sonny Hayes (Brad Pitt, brillante e sul pezzo), uno che correva (e forte) in Formula 1 quando ancora si ballava la macarena. Lontano dai gran premi da più di 30 anni, tre matrimoni andati male, una rovinosa passione per il gioco d’azzardo e un incidente che ancora si sogna di notte, il pilota americano (che a qualcuno ha ricordato Marione Andretti) rientra clamorosamente in gioco, accolto con diffusa perplessità (per usare un eufemismo…) da colleghi e stampa, per dare una mano al disperato team guidato da un suo caro amico ed ex avversario ai tempi di Senna e Prost. Ma la macchina è un catorcio, l’ingegnere capo in confusione e il suo ben più giovane compagno di squadra alza subito la cresta…
Fedele ai crismi più convenzionali dello sport movie (il dualismo tra vecchio e giovane, nemici/amici per la pelle, la seconda occasione, l’escalation - tra alti e bassi -, verso la gara decisiva, il campione che gareggia contro i suoi demoni, l’immancabile storia d’amore…), ma con un occhio all’epica del western, Kosinski realizza un film competitivo ed efficace, dimostrando di conoscere tra soggettive ardite e improvvisi fuori pista, fascino e sensualità di bolidi costruiti per vincere e volare. Prodotto (anche) dal mito del volante Lewis Hamilton (chiamato a un compito ancora più gravoso di quello di Hayes: riportare entusiasmo in casa Ferrari), girato (anche) in occasione dei veri Gran premi con l’apparizione e la complicità delle star (da Verstappen e Leclerc) del mondiale, «F1» sa emozionare, grazie anche a un montaggio da gara e al commento musicale di Hans Zimmer. Non sarà (e non è) «Rush», d’accordo, ma funziona: tanto che una volta finito il film, ripresa l’auto a corto di benzina per tornare a casa, rischi di fermarti al distributore urlando «box, box, box!».
Ritrovarsi a Tokyo, la parte mancante
La mia recensione di “Ritrovarsi a Tokyo”
Comincia dentro a uno specchietto retrovisore, con la vita (e tutto il resto) che non smette di scorrere alle spalle del protagonista, questo film: e non potrebbe essere altrimenti, là dove, nella notte metallica e «altra», conta sempre più quello che hai lasciato indietro piuttosto che la strada che ti ritrovi davanti. Come se quella parte mancante (non a caso il titolo originale...) fosse il segreto rimosso del tutto: il pezzo che risolve il puzzle, l'ingranaggio emotivo che rimette in carica il cuore. Ci sono perfect days che non sono perfetti per niente in «Ritrovarsi a Tokyo» di Guillaume Senez, dove l'insopprimibile necessità di essere e restare padre occupa lo spazio bianco di un'umanità sospesa, per sempre straniera, in patria o no, lost in translation nel girotondo di domande inascoltate e di cavilli incomprensibili, quando anche la lingua che credevi di avere imparato sembra essere,, in un attimo, dimenticata.
Come per Jay, ex chef francese, che guida un taxi e colleziona in camere-santuari lacrime e ricordi. Non vede la figlia da 9 anni, da quando la moglie giapponese, che ha la legge, per quanto ingiusta, dalla sua, ha fatto le valigie ed è tornata a Tokyo: non ha mai smesso di cercare la ragazzina, ma ormai è sul punto di arrendersi. Poi, una mattina...
Affondata la rabbia e il senso di colpa in una logorante strategia della pazienza, decisamente più zen che occidentale, il film stretto, intimo, anche tenero (pur nella disperazione) di Senez cerca di riannodare, nel dolore amplificato della separazione, il legame, fragile e insieme fortissimo, che tiene se non fisicamente idealmente uniti un padre con la propria figlia, confermando quanto la paternità ritrovata sia uno dei temi più frequentati del cinema degli ultimi tempi.
Forse anche per questo la pellicola, che trova nel sempre bravissimo Romain Duris («Tutti i battiti del mio cuore», «L'appartamento spagnolo») un fascio di nervi di empatica intensità, assomiglia a tante altre cose già viste e pecca a tratti di didascalismo. Ma, tra denuncia e struggimento, sul possibile sentimentalismo prevale alla fine il senso di spaesamento, l'approccio umanista e la determinazione ferita di chi va incontro al suo destino sperando che un selfie sia per sempre.
La trama fenicia: il miliardario, la suora e il disastro del capitalismo
C'è un tizio ricchissimo che ha 10 figli, 9 maschi e una femmina che vuole farsi suora e fuma la pipa, è sopravvissuto a 6 incidenti aerei e nonostante tentino invano di avvelenarlo con il brezel non perde il fiuto negli affari che ne fanno «mister 5%». Già così vi ho dato un bell'indizio: ma se vi dico che il set assomiglia a un (bellissimo) libro illustrato e che sono della partita anche una spia che ama gli insetti e gli inquilini dell'aldilà (rigorosamente in bianco e nero) è abbastanza palese che ci troviamo nell'ennesimo, stravagante e delizioso, film di Wes Anderson, «La trama fenicia». Vero che il regista americano (di recente in concorso nell’amato Festival di Cannes, nel quale è sempre ospite gradito) ripete ormai sempre all'infinito il suo schema e che il suo cinema bizzarro e analogico sembra quasi autocitarsi: ma l'ironia è centrata, lo stile immediatamente riconoscibile e rassicurante, il gioco sempre godibile. E qui, oltretutto, il cantore delle famiglie più disfunzionali lascia che la satira si fonda con la denuncia politica, mentre, in fila al funerale del capitalismo, il potere riflette sull’eredità che lascia ai suoi figli: denaro e polvere, avidità e disastro. Go Wes, quindi: ma se il colpo riesce ancora è merito anche dei complici. La banda Anderson, per l’esattezza che conta gene come Benicio Del Toro, Bill Murray, Scarlett Joahnsson, Benedict Cumberbacht. E trova anche una faccia nuova: quella di Mia Threapleton, la 25enne figlia della ragazza con cui avreste voluto ballare sul Titanic. Sì, lei è Kate Winslet: e noi non siamo più dei poppanti.