F1, se Brad Pitt scende in pista
La mia recensione di “F1” di Jospeh Kosinski e con Brad Pitt
«Che ci fai qui?».
La tuta come l’armatura, il casco al posto dell’elmo, la pista invece della battaglia: è una gara o è una guerra? Nel romantico inseguire a 300 chilometri orari (e non uno di meno) un momento finalmente perfetto, il cinema sportivo si traveste da combat movie: e nella cinetica seduzione della velocità raccoglie la sfida di un cowboy anni ‘90 dalle gomme mai lisce, in cerca di riscatto e - forse - redenzione. Ha un’anima guerriera e lo spirito del cavaliere solitario lo spottoso (ma non spocchioso) e adrenalinico «F1», il film spettacolare e carenatissimo con cui Joseph Kosinski, il regista di «Top Gun: Maverick», porta sullo schermo curve cieche, piste roventi e leggenda del circus, accelerando allo start per poi toccare il freno il meno possibile. Divertente, ultra brandizzato, molto macho (ma il testosterone, in questo caso, non è un antidoto agli incubi o alla sensibilità), il blockbuster voluto da Apple+ (a oggi è il maggior successo della divisione cinematografica della mela morsicata) celebra la rivincita dei boomer, là dove il rombo dei motori è (per fortuna) ancora più forte di quello dei social.
Come nel sequel di «Top Gun», anche qui tutto comincia con un ritorno: quello di Sonny Hayes (Brad Pitt, brillante e sul pezzo), uno che correva (e forte) in Formula 1 quando ancora si ballava la macarena. Lontano dai gran premi da più di 30 anni, tre matrimoni andati male, una rovinosa passione per il gioco d’azzardo e un incidente che ancora si sogna di notte, il pilota americano (che a qualcuno ha ricordato Marione Andretti) rientra clamorosamente in gioco, accolto con diffusa perplessità (per usare un eufemismo…) da colleghi e stampa, per dare una mano al disperato team guidato da un suo caro amico ed ex avversario ai tempi di Senna e Prost. Ma la macchina è un catorcio, l’ingegnere capo in confusione e il suo ben più giovane compagno di squadra alza subito la cresta…
Fedele ai crismi più convenzionali dello sport movie (il dualismo tra vecchio e giovane, nemici/amici per la pelle, la seconda occasione, l’escalation - tra alti e bassi -, verso la gara decisiva, il campione che gareggia contro i suoi demoni, l’immancabile storia d’amore…), ma con un occhio all’epica del western, Kosinski realizza un film competitivo ed efficace, dimostrando di conoscere tra soggettive ardite e improvvisi fuori pista, fascino e sensualità di bolidi costruiti per vincere e volare. Prodotto (anche) dal mito del volante Lewis Hamilton (chiamato a un compito ancora più gravoso di quello di Hayes: riportare entusiasmo in casa Ferrari), girato (anche) in occasione dei veri Gran premi con l’apparizione e la complicità delle star (da Verstappen e Leclerc) del mondiale, «F1» sa emozionare, grazie anche a un montaggio da gara e al commento musicale di Hans Zimmer. Non sarà (e non è) «Rush», d’accordo, ma funziona: tanto che una volta finito il film, ripresa l’auto a corto di benzina per tornare a casa, rischi di fermarti al distributore urlando «box, box, box!».
Ritrovarsi a Tokyo, la parte mancante
La mia recensione di “Ritrovarsi a Tokyo”
Comincia dentro a uno specchietto retrovisore, con la vita (e tutto il resto) che non smette di scorrere alle spalle del protagonista, questo film: e non potrebbe essere altrimenti, là dove, nella notte metallica e «altra», conta sempre più quello che hai lasciato indietro piuttosto che la strada che ti ritrovi davanti. Come se quella parte mancante (non a caso il titolo originale...) fosse il segreto rimosso del tutto: il pezzo che risolve il puzzle, l'ingranaggio emotivo che rimette in carica il cuore. Ci sono perfect days che non sono perfetti per niente in «Ritrovarsi a Tokyo» di Guillaume Senez, dove l'insopprimibile necessità di essere e restare padre occupa lo spazio bianco di un'umanità sospesa, per sempre straniera, in patria o no, lost in translation nel girotondo di domande inascoltate e di cavilli incomprensibili, quando anche la lingua che credevi di avere imparato sembra essere,, in un attimo, dimenticata.
Come per Jay, ex chef francese, che guida un taxi e colleziona in camere-santuari lacrime e ricordi. Non vede la figlia da 9 anni, da quando la moglie giapponese, che ha la legge, per quanto ingiusta, dalla sua, ha fatto le valigie ed è tornata a Tokyo: non ha mai smesso di cercare la ragazzina, ma ormai è sul punto di arrendersi. Poi, una mattina...
Affondata la rabbia e il senso di colpa in una logorante strategia della pazienza, decisamente più zen che occidentale, il film stretto, intimo, anche tenero (pur nella disperazione) di Senez cerca di riannodare, nel dolore amplificato della separazione, il legame, fragile e insieme fortissimo, che tiene se non fisicamente idealmente uniti un padre con la propria figlia, confermando quanto la paternità ritrovata sia uno dei temi più frequentati del cinema degli ultimi tempi.
Forse anche per questo la pellicola, che trova nel sempre bravissimo Romain Duris («Tutti i battiti del mio cuore», «L'appartamento spagnolo») un fascio di nervi di empatica intensità, assomiglia a tante altre cose già viste e pecca a tratti di didascalismo. Ma, tra denuncia e struggimento, sul possibile sentimentalismo prevale alla fine il senso di spaesamento, l'approccio umanista e la determinazione ferita di chi va incontro al suo destino sperando che un selfie sia per sempre.
La trama fenicia: il miliardario, la suora e il disastro del capitalismo
C'è un tizio ricchissimo che ha 10 figli, 9 maschi e una femmina che vuole farsi suora e fuma la pipa, è sopravvissuto a 6 incidenti aerei e nonostante tentino invano di avvelenarlo con il brezel non perde il fiuto negli affari che ne fanno «mister 5%». Già così vi ho dato un bell'indizio: ma se vi dico che il set assomiglia a un (bellissimo) libro illustrato e che sono della partita anche una spia che ama gli insetti e gli inquilini dell'aldilà (rigorosamente in bianco e nero) è abbastanza palese che ci troviamo nell'ennesimo, stravagante e delizioso, film di Wes Anderson, «La trama fenicia». Vero che il regista americano (di recente in concorso nell’amato Festival di Cannes, nel quale è sempre ospite gradito) ripete ormai sempre all'infinito il suo schema e che il suo cinema bizzarro e analogico sembra quasi autocitarsi: ma l'ironia è centrata, lo stile immediatamente riconoscibile e rassicurante, il gioco sempre godibile. E qui, oltretutto, il cantore delle famiglie più disfunzionali lascia che la satira si fonda con la denuncia politica, mentre, in fila al funerale del capitalismo, il potere riflette sull’eredità che lascia ai suoi figli: denaro e polvere, avidità e disastro. Go Wes, quindi: ma se il colpo riesce ancora è merito anche dei complici. La banda Anderson, per l’esattezza che conta gene come Benicio Del Toro, Bill Murray, Scarlett Joahnsson, Benedict Cumberbacht. E trova anche una faccia nuova: quella di Mia Threapleton, la 25enne figlia della ragazza con cui avreste voluto ballare sul Titanic. Sì, lei è Kate Winslet: e noi non siamo più dei poppanti.
Mission: Impossible, countdown finale
«The end is coming».
O forse no: che sia la fine, come si dice, della saga (vero che Tom Cruise ha compiuto 62 anni, ma ce lo vedete Ethan Hunt in prepensionamento?) oppure invece solo un modo per trasformarla in qualcosa d'altro, il brand «Mission: Impossible», fortunatissimo e dall'impatto globale, non smette di funzionare, mettendo sul piatto un mix sempre avvincente di azione, spy story, hi-tech, ironia e gioco di squadra.
In ballo c'è - of course - la sopravvivenza del genere umano, solo che stavolta il nemico non è il solito pazzo scriteriato o il villain del Bond di turno. Ma un'entità: una sorta di anti Dio in cui non è difficile riconoscere una nefasta evoluzione dell'Intelligenza Artificiale. Una mente malvagia e immateriale che punta alla catastrofe nucleare: che solo Ethan e la sua squadra di fedelissimi può tentare di scongiurare.
Chiaramente ne vedremo di tutti i colori: forte di una sospensione dell'incredulità che dura quasi tre ore e di un montaggio cinetico che non permette di annoiarsi (anche se nella sequenza del sommergibile il regista McQuarrie non avrebbe fatto male ad usare l'arma segreta: le forbici), «Mission: Impossible-The Final Reckoning», partito con un omaggio al franchise che vale un po' anche da recap, si conferma una baracconata divertente, un blockbuster giramondo (da Londra all'Austria, dal Mare di Bering al Sudafrica) capace di giocare, trovandosi a suo agio, in qualunque elemento - cielo, terra e acqua (e ovviamente fuoco: a volontà) - con una serie di colpi di scena e imprevisti che si susseguono a ciclo continuo.
Tutto è molto «ultra», ma non mancano i messaggi - nemmeno troppo sottotraccia - alla complessità del presente: dall'incubo nucleare tornato prepotentemente d'attualità agli echi di guerra fredda (anzi gelida, visto che l'incontro è all'Artico) tra americani e russi, fino ai pericoli - sottostimati - dell'IA. Ma certo se il presidente Usa, come in questo caso, è donna e non Trump è già un bel passo avanti.
Sotto le foglie, champignon e vecchi merletti: Ozon e il giallo degli affetti
Champignon e vecchi merletti. È un giallo degli affetti ambiguo eppure salvifico, tollerante a tutto tranne che all'ipocrisia giudicante, il nuovo, «sofisticato» ma per nulla snob, film di François Ozon, che nell'autunno della vita di una Maddalena in cerca di perdono (o almeno di un Cristo capace di comprenderla) ricama un bel copione con l'ago del dubbio e il filo del sospetto, nella certezza ostinata che «tutti hanno diritto a una seconda possibilità». E a qualche sprazzo di luce che si faccia largo tra le ombre, spesse, di ieri. Che poi, magari, offuscano, rendendolo confuso, mai del tutto nitido, anche l'oggi.
Ha il garbo del noir rurale, un certo divertito retrogusto hitchcockiano, ma è un film in realtà velenoso (che sa essere anche tossico come certi funghi che è meglio non mangiare) «Sotto le foglie», gentile ma non per questo più rassicurante: una storia di fantasmi - alcuni senza volto, supposti o solo evocati, altri di «tangibile» e più acuta presenza - che si agitano nelle domande più scomode.
Anche nella placida Borgogna, dove Michelle (una bravissima Hélene Vincent) vive sola in una casa di campagna dove Parigi non manca più di tanto. E in cui, a volte, la vengono a trovare il nipotino che adora e una figlia che «non baciarmi, perché ho il raffreddore». Con lei, che si sta separando dal marito e che ha sempre bisogno do soldi, i rapporti non sono mai stati facili: ma con l'ultima visita riusciranno addirittura a peggiorare...
Sottile, intimo, riconoscente, abitato da un passato persecutorio da cui è difficile liberarsi, tra segreti, bugie e omissioni mai facili da gestire, «Sotto le foglie» ha svolte sorprendenti ma mai grossolanamente marcate dove, nel ricambio delle stagioni, la verità è solo la versione della storia che si accetta di raccontarsi prima di andare a dormire. D'altra parte la bravura - e l'eleganza - di Ozon sta proprio in questo: nel lasciare che sia lo spettatore, se proprio vuole, a provare a fare chiarezza, a riempire il bianco che resta tra le righe, a dare una forma alla reticenze, ad accettare questa o quella suggestione.
Il regista ne sta giustamente alla larga: molto più interessato a indagare le dinamiche (anche morali) e le imprevedibili trasformazioni di famiglie che avvelenato il non detto mutano forma (e formazione) con la determinata volontà di sopravvivere a tutto, anche a se stesse.