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La trama fenicia: il miliardario, la suora e il disastro del capitalismo

C'è un tizio ricchissimo che ha 10 figli, 9 maschi e una femmina che vuole farsi suora e fuma la pipa, è sopravvissuto a 6 incidenti aerei e nonostante tentino invano di avvelenarlo con il brezel non perde il fiuto negli affari che ne fanno «mister 5%». Già così vi ho dato un bell'indizio: ma se vi dico che il set assomiglia a un (bellissimo) libro illustrato e che sono della partita anche una spia che ama gli insetti e gli inquilini dell'aldilà (rigorosamente in bianco e nero) è abbastanza palese che ci troviamo nell'ennesimo, stravagante e delizioso, film di Wes Anderson, «La trama fenicia». Vero che il regista americano (di recente in concorso nell’amato Festival di Cannes, nel quale è sempre ospite gradito) ripete ormai sempre all'infinito il suo schema e che il suo cinema bizzarro e analogico sembra quasi autocitarsi: ma l'ironia è centrata, lo stile immediatamente riconoscibile e rassicurante, il gioco sempre godibile. E qui, oltretutto, il cantore delle famiglie più disfunzionali lascia che la satira si fonda con la denuncia politica, mentre, in fila al funerale del capitalismo, il potere riflette sull’eredità che lascia ai suoi figli: denaro e polvere, avidità e disastro. Go Wes, quindi: ma se il colpo riesce ancora è merito anche dei complici. La banda Anderson, per l’esattezza che conta gene come Benicio Del Toro, Bill Murray, Scarlett Joahnsson, Benedict Cumberbacht. E trova anche una faccia nuova: quella di Mia Threapleton, la 25enne figlia della ragazza con cui avreste voluto ballare sul Titanic. Sì, lei è Kate Winslet: e noi non siamo più dei poppanti.

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Mission: Impossible, countdown finale

«The end is coming».

O forse no: che sia la fine, come si dice, della saga (vero che Tom Cruise ha compiuto 62 anni, ma ce lo vedete Ethan Hunt in prepensionamento?) oppure invece solo un modo per trasformarla in qualcosa d'altro, il brand «Mission: Impossible», fortunatissimo e dall'impatto globale, non smette di funzionare, mettendo sul piatto un mix sempre avvincente di azione, spy story, hi-tech, ironia e gioco di squadra.

In ballo c'è - of course - la sopravvivenza del genere umano, solo che stavolta il nemico non è il solito pazzo scriteriato o il villain del Bond di turno. Ma un'entità: una sorta di anti Dio in cui non è difficile riconoscere una nefasta evoluzione dell'Intelligenza Artificiale. Una mente malvagia e immateriale che punta alla catastrofe nucleare: che solo Ethan e la sua squadra di fedelissimi può tentare di scongiurare.

Chiaramente ne vedremo di tutti i colori: forte di una sospensione dell'incredulità che dura quasi tre ore e di un montaggio cinetico che non permette di annoiarsi (anche se nella sequenza del sommergibile il regista McQuarrie non avrebbe fatto male ad usare l'arma segreta: le forbici), «Mission: Impossible-The Final Reckoning», partito con un omaggio al franchise che vale un po' anche da recap, si conferma una baracconata divertente, un blockbuster giramondo (da Londra all'Austria, dal Mare di Bering al Sudafrica) capace di giocare, trovandosi a suo agio, in qualunque elemento - cielo, terra e acqua (e ovviamente fuoco: a volontà) - con una serie di colpi di scena e imprevisti che si susseguono a ciclo continuo.

Tutto è molto «ultra», ma non mancano i messaggi - nemmeno troppo sottotraccia - alla complessità del presente: dall'incubo nucleare tornato prepotentemente d'attualità agli echi di guerra fredda (anzi gelida, visto che l'incontro è all'Artico) tra americani e russi, fino ai pericoli - sottostimati - dell'IA. Ma certo se il presidente Usa, come in questo caso, è donna e non Trump è già un bel passo avanti.

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The Shrouds, l’ultima mutazione di Cronenberg, ateo non praticante

E ultima venne la morte. Chi altro se non il poeta della carne, il geniale e controverso profeta della trasformazione, il cantore del martirio del sé, avrebbe potuto guardare con affetto, scoprendovi lo spettro di un sentimento, quasi una parvenza di lugubre bellezza, nella decomposizione di un lunghissimo addio, nello sfacelo del corpo, nell'estrema, definitiva, mutazione? Chi se non il regista de «La mosca», «Inseparabili» e «Crash», avrebbe potuto confrontarsi - in questo modo - con temi come l'orrore della fine e l'angoscia di sopravvivere?

Ateo non praticante, l'82enne David Cronenberg trucca Vincent Cassel a sua immagine e somiglianza per farne un doppio scomodo nel baratro fondo di «The Shrouds» («I sudari»), la pellicola in cui affronta, alla sua maniera, la complessa elaborazione del lutto per la morte dell'amatissima moglie, nell'amara consapevolezza che neppure un film (e di certo non questo) può salvarlo dal dolore.

La storia di Karsh (Cassel), imprenditore visionario che nella bara della moglie ha messo una telecamera attivabile con una semplice app del suo smartphone. Non contento, ha costruito un intero cimitero con queste caratteristiche, dove è possibile osservare da vicino gli amabili resti del caro estinto, nonché pranzare in un ristorante alla moda con vista sui sepolcri. Un giorno però alcune delle tombe vengono vandalizzate: chi è stato? E perché?

La mitologia (e il tabù) della morte, l'agonia dell'eternità, il controllo, l'intelligenza artificiale, il doppio: in un futuro che non è né elettrico né tecnologico, ma organico, l'autore di «History of violence» gira un thriller post mortem plumbeo e paranoico inizialmente intrigante, dove la riflessione alta non esclude la presenza dell'humor nerissimo. La provocazione, come sempre nel cinema dell'autore canadese, non è fine a se stessa, ma Cronenberg nella seconda parte perde un po' il filo e il senso del tutto: «The Shrouds» si fa contorto, smarrendosi in un intreccio complottista di genere non molto interessante, per andare incontro a una chiusura non particolarmente riuscita e a fuoco. Come se anche il corpo del film alla fine si decomponesse, si sfilacciasse, davanti ai nostri occhi.

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Il seme del fico sacro, il sonno dell’Iran genera mostri

Il sonno della ragione genera mostri: anche tra le quattro mura di una (nuova) casa. Dove, seduti assai poco comodamente sul scivoloso divano del dubbio, si rischia di diventare giudici delle proprie «amate» figlie. O della donna che si è sposata. Ma mai, proprio mai, di se stessi.

È il film di un regista in fuga, le cui opere non sono mai state proiettate nel suo Paese, censurato e messo all'indice, un autore, già rinchiuso per sette interminabili mesi nel carcere di Evin (lo stesso di Cecilia Sala), che ha scelto l'esilio, per quanto straziante e ingiusto, per evitare una condanna a 8 anni di reclusione, la fustigazione e la confisca dei beni. Un cineasta simbolo Mohammad Rasoulof, che non si limita a dissentire: ma che dà corpo - e volto - alla paranoia che attacca come una cancrena i tessuti vivi di un Paese, l'Iran, irrimediabilmente orfano: dove le nuove generazioni non possono più riconoscersi in un legame - né di sangue né tanto meno ideologico e morale - con chi le ha precedute. Né, soprattutto, assolvere la complicità di chi (padri padroni e comparse della Storia) fingendo di non avere scelta, preferisce fare parte dell'ingranaggio, piuttosto che - nell'evidenza della sua iniquità - esserne il sabotatore.

Nell’Iran delle manifestazioni studentesche represse nel sangue, un uomo, appena promosso giudice istruttore, scopre che la sua pistola d’ordinanza è sparita: chi può averla presa? I sospetti inevitabilmente cadono sulle figlie e sulla moglie…

Girato in clandestinità e accolto da un commosso applauso senza fine alla prima mondiale al Festival di Cannes dell’anno scorso, dove vinse il premio speciale della giuria, per poi essere candidato all'Oscar per il miglior film internazionale, «Il seme del fico sacro» (l’albero che soffoca e uccide le piante vicine, così come il regime iraniano strangola il suo popolo: ma in una visione più ottimista, anche i germi del movimento di protesta «Donna, vita e libertà» che, crescendo, porteranno - forse - alla morte della dittatura...) non è solo un atto di denuncia della follia del regime teocratico, ma anche un implacabile thriller etico che ha per bersaglio uno Stato destinato a implodere, così come d'altra parte l’istituzione famiglia.

Attraverso un classico espediente del genere (lo smarrimento di un’arma), Rasoulof porta il gioco della verità e della menzogna a un punto di non ritorno: qualche taglio avrebbe giovato, ma la riflessione politica e quella sulla condizione femminile vanno molto oltre il racconto del reale, per cogliere la profondità, mai troppo esplorata, dell'abisso.

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L’orto americano: Avati coltiva i frutti del dubbio

Il regista che parlava coi morti: a 86 anni Pupi Avati, da sempre a suo agio nel torbido, trova al confine tra l'acqua dolce del Po e quella salata del mare un film con cui riabbracciare il gotico, coltivando ne «L'orto americano» i germogli della follia.

Girato in un bianco e nero severo e denso, il nuovo film del regista bolognese di «Regalo di Natale» e «Una gita scolastica», cita i classici greci (da Archiloco a Bacchilide, passando per Pindaro) e richiama alla memoria certe atmosfere noir della Hollywood degli anni Quaranta, seguendo nell'immediato dopoguerra il tortuoso percorso di un giovane scrittore incompreso che si troverà a indagare sulla scomparsa di una bellissima infermiera che aveva incrociato in Italia per un istante, innamorandosene al primo sguardo...

Suggestivo nelle diverse ambientazioni, con dettagli horror che richiamano alla memoria alcuni mostri della cronaca nera (come quello di Firenze), il film, tratto da un romanzo dello stesso regista e interpretato da Filippo ScottiE' stata la mano di Dio»), Roberto De Francesco e da molti fedelissimi del regista (da Andrea Roncato al parmigiano Alberto Petrolini), confonde le acque, ma non non sempre il congegno narrativo appassiona e la risoluzione (parziale) del giallo appare un po' telefonata, suggerita, anche se l'autore privilegia un finale aperto, sospeso. Perché «L'orto» di Avati riserva allo spettatore i frutti più amari: quelli del dubbio.

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