2025, Festival, Recensione Filiberto Molossi 2025, Festival, Recensione Filiberto Molossi

Le città di pianura: un on the road alcolico stropicciato, malinconico e divertente

Nel Veneto di ombre e (pochi) sghei, in cui non c'è più nessun luogo dove andare, ma solo strade dove muoversi da un posto all'altro, un film corretto prugna (sì, come il caffè...) dove tira aria di Mazzacurati ma che guarda anche (con spavalda riconoscenza) al «Sorpasso» (e pure ai «Vitelloni»). È bello così com'è, come viene, stropicciato sin dall'inizio, «Le città di pianura», l'opera seconda del bellunese Francesco Sossai, già applaudita con vero calore a Cannes: un on the road tra la ballad e la zingarata, malinconico e divertente, forse disperato ma mai triste. Due amici cinquantenni che cercano un posto aperto per bere l'ultimo bicchiere, si imbattono in uno studente napoletano e lo convincono a seguirli: di bar in bar, di avventura in avventura, gli cambieranno in qualche modo la vita.

Balli di gruppo country, gin tonic a due euro, addii al nubilato, cocktail di gamberi in salsa rosa, gare di ape car in montagna, ipnotiche slot machine, birre malauguratamente analcoliche, «zio can»: e un grande architetto, Carlo Scarpa, sepolto in piedi come i samurai. Abbracciati i suoi personaggi, che si guarda bene dal giudicare, Sossai racconta la provincia dal di dentro, ne coglie miserie e nobiltà, correndo verso il tramonto in Jaguar.

Scelte le facce (e le sensibilità) giuste - Sergio Romano e Pierpaolo Capovilla, già fondatore e voce di una band di culto come il Teatro degli Orrori, mentre il ragazzo è il Filippo Scotti di «È stata la mano di Dio»: tutti bravissimi - l'autore 36enne mette un punto di non ritorno sulla grande crisi del 2008, per destrutturare il mito del Nord Est, di cui coglie la profonda trasformazione, se non umana, ambientale e urbanistica. Sempre però conservando, con un'autenticità rara nel panorama odierno del cinema italiano, la voglia di un altro giro, del bicchiere della staffa e di un ennesimo sorriso: perché «me lo aspettavo amaro e invece è dolce nel finale».

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Una battaglia dopo l’altra: la grande festa della rivoluzione

C'è la terza guerra mondiale qua fuori.

Paul Thomas Anderson vi invita alla festa della rivoluzione: accorrete numerosi, please. Che il mondo, in fondo, si può cambiarlo pure in vestaglia: parola di DiCaprio (e prima di lui, anche del Drugo Lebowski...).

È un film antagonista e illuminato questo, grottesco e arrabbiato, che spinge, sgomita, sbatte. Pieno di tunnel e famiglie in gabbie, confini e domande di cui ci si è dimenticati la risposta. Incapace di stare fermo anche quando apparentemente «divanato», sempre in fuga, costantemente in movimento, all'inseguimento. Dura quasi tre ore che non sembrano nemmeno due, «Una battaglia dopo l'altra», il grande film sull'America (e contro l'America) girato dal regista di «Magnolia» e «Il petroliere», una delle voci più potenti e corrosive del contemporaneo: un distillato amarissimo e irresistibile di (universale) attualità dove l'intrattenimento «alto» sposa la denuncia, il divertimento d'autore abbraccia la riflessione mai imparziale, la satira danza stretta con l'umanesimo militante. Per raccontare con stile bello e sgualcito come una camicia bianca messa il giorno prima i giorni assurdi e crudeli delle lobby dei suprematisti bianchi (i «Pionieri del Natale», «fantastici»), della pulizia etnica, del patriottismo mal riposto.

In un presente non dichiarato dove non si è mai al sicuro, malato cronico di autoritarismo, un gruppo di attivisti guidati dalla carismatica Perfidia Beverly Hills scatena il caos assalendo centri di detenzione per immigrati, banche e altri simboli di un capitalismo avvelenato: ad accendere la miccia della rivolta è il suo compagno Bob, detto Rocketman, esperto in esplosivi. Ma quando Perfidia viene arrestata, per salvarsi fa i nomi dei compagni di lotta: e a Bob, con la figlia neonata, non resta che fuggire, braccato per sempre dal fanatico colonnello Lockjaw...

Negli echi del rullo dei tamburi de «La battaglia di Algeri», tra suore devote alla «maria» (nel senso della droga) e saggi sensei in salsa tex-mex, Anderson (complice il girl power: si sa, saranno le donne a salvare il mondo...) prende a calci il crepuscolo di una democrazia pigra e rinunciataria, girando un sorprendente film-manifesto iperrealistico, fumettistico e demenziale, ma non per questo meno inquietante, meno profetico. È cinema politico travestito da kolossal mainstream (e viceversa), un combat movie che diventa un melò che va di corsa, «Una battaglia dopo l'altra», abbastanza disilluso (e deluso, ma mai arrendevole) per osservare senza moralismi il tradimento dell'America e i vuoti di memoria della sinistra radicale.

Anti trumpiano, dissonante - come la colonna sonora, presentissima -, sarcastico, il film a cui PTA pensa da vent'anni (lo ha tratto da «Vineland» di Thomas Pynchon , lo stesso di «Vizio di forma») e in cui non rinuncia ad affrontare alcune delle tematiche che gli stanno più a cuore (tra padri, veri e putativi, e mentori), brilla anche grazie a un cast di fenomeni che conta tra gli altri Leonardo DiCaprio (Bob), Sean Penn, villain da antologia, e Benicio Del Toro. Tris d'assi che Anderson cala (insieme a un paio di regine: Teyana Taylor e la giovanissima Chase Infiniti) sul tavolo verde di questo folle mondo. Dove ogni domanda ha una risposta: «Sai cos'è la libertà? Non avere paura di nulla. Proprio come Tom Cruise».

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F1, se Brad Pitt scende in pista

La mia recensione di “F1” di Jospeh Kosinski e con Brad Pitt

«Che ci fai qui?».

La tuta come l’armatura, il casco al posto dell’elmo, la pista invece della battaglia: è una gara o è una guerra? Nel romantico inseguire a 300 chilometri orari (e non uno di meno) un momento finalmente perfetto, il cinema sportivo si traveste da combat movie: e nella cinetica seduzione della velocità raccoglie la sfida di un cowboy anni ‘90 dalle gomme mai lisce, in cerca di riscatto e - forse - redenzione. Ha un’anima guerriera e lo spirito del cavaliere solitario lo spottoso (ma non spocchioso) e adrenalinico «F1», il film spettacolare e carenatissimo con cui Joseph Kosinski, il regista di «Top Gun: Maverick», porta sullo schermo curve cieche, piste roventi e leggenda del circus, accelerando allo start per poi toccare il freno il meno possibile. Divertente, ultra brandizzato, molto macho (ma il testosterone, in questo caso, non è un antidoto agli incubi o alla sensibilità), il blockbuster voluto da Apple+ (a oggi è il maggior successo della divisione cinematografica della mela morsicata) celebra la rivincita dei boomer, là dove il rombo dei motori è (per fortuna) ancora più forte di quello dei social.

Come nel sequel di «Top Gun», anche qui tutto comincia con un ritorno: quello di Sonny Hayes (Brad Pitt, brillante e sul pezzo), uno che correva (e forte) in Formula 1 quando ancora si ballava la macarena. Lontano dai gran premi da più di 30 anni, tre matrimoni andati male, una rovinosa passione per il gioco d’azzardo e un incidente che ancora si sogna di notte, il pilota americano (che a qualcuno ha ricordato Marione Andretti) rientra clamorosamente in gioco, accolto con diffusa perplessità (per usare un eufemismo…) da colleghi e stampa, per dare una mano al disperato team guidato da un suo caro amico ed ex avversario ai tempi di Senna e Prost. Ma la macchina è un catorcio, l’ingegnere capo in confusione e il suo ben più giovane compagno di squadra alza subito la cresta…

Fedele ai crismi più convenzionali dello sport movie (il dualismo tra vecchio e giovane, nemici/amici per la pelle, la seconda occasione, l’escalation - tra alti e bassi -, verso la gara decisiva, il campione che gareggia contro i suoi demoni, l’immancabile storia d’amore…), ma con un occhio all’epica del western, Kosinski realizza un film competitivo ed efficace, dimostrando di conoscere tra soggettive ardite e improvvisi fuori pista, fascino e sensualità di bolidi costruiti per vincere e volare. Prodotto (anche) dal mito del volante Lewis Hamilton (chiamato a un compito ancora più gravoso di quello di Hayes: riportare entusiasmo in casa Ferrari), girato (anche) in occasione dei veri Gran premi con l’apparizione e la complicità delle star (da Verstappen e Leclerc) del mondiale, «F1» sa emozionare, grazie anche a un montaggio da gara e al commento musicale di Hans Zimmer. Non sarà (e non è) «Rush», d’accordo, ma funziona: tanto che una volta finito il film, ripresa l’auto a corto di benzina per tornare a casa, rischi di fermarti al distributore urlando «box, box, box!».

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Cinema, Arena estiva, 2025, Articolo Filiberto Molossi Cinema, Arena estiva, 2025, Articolo Filiberto Molossi

Giovane e coraggiosa: l’arena del D’Azeglio fa sul serio

Film in prima visione, nuovi registi (per lo più debuttanti) da scoprire e magari incontrare, rassegne etico-sostenibili, serate evento, attori e attrici che parlano nella loro lingua, tuffi avventurosi nel mare magno (e spesso assai mosso) della storia del cinema: è giovane e anticonformista l'estate del D'Azeglio.

Se l'arena dell'Astra detta piacevolissimi compiti per le vacanze - proponendo un ripasso del meglio della stagione appena conclusa - quella del cinema dell'Oltretorrente, che ha aperto i battenti il 5, percorre strade meno battute e sicure, segnalandosi per varietà, coraggio e ambizione della proposta. Uno sguardo inedito su uno schermo sempre in fiamme che al pubblico chiede, per citare il titolo di uno dei film più interessanti in cartellone, tutto l'amore che serve.

Le prime visioni

Piatto ricco: ben otto i film - uniti dal comune denominatore della qualità - distribuiti in questa lunga estate calda e intercettati dall'arena del D'Azeglio per luglio e la prima settimana di agosto. Dopo «Tre amiche», dalla Francia arrivano anche il coming of age «Tutto in un'estate» (il 25), forte di due César vinti, e in agosto (l'1 e il 2) il commovente ed emozionante «Tutto l'amore che serve», storia di una madre che scopre che il figlio con disabilità cognitiva ha messo incinta la ragazza di cui è innamorato. Francofono ma canadese, invece, «Fino alle montagne» (l'8), storia vera di un agente pubblicitario dal cuore ballerino che molla tutto per diventare un pastore e gestire un gregge. Crisi di coppia e di famiglia invece negli spagnoli (con tante candidature ai Goya, gli Oscar iberici) «Volveréis» (il 12) e «Casa in fiamme» (26 e 27), mentre il corale e palestinese «Happy holidays» (il 18) porta il focus sul presente, concentrandosi sui complessi rapporti interpersonali tra arabi e israeliani. Delizioso, infine, l'americano «Aragoste a Manhattan», ambientato in un ristorante di New York.

Un gioco da ragazzi

È una delle grandi novità dell'estate del D'Azeglio: una nuova rassegna - sotto l'egida di «Accadde domani» e in collaborazione con Cinematocco - che va a scovare registi italiani giovani e promettenti. Una sorta di ballo dei debuttanti che mette in fila cinque film (inediti a Parma) dallo sguardo altro urgenti e non procrastinabili. Si parte il 14 con il doc «San Damiano» (presenti i registi Gregorio Sassoli e Alejandro Cifuentes), ambientato alla stazione Termini, si prosegue il 21 con «Io e il secco» di Gianluca Santoni, l'amicizia tra un bambino e un improbabile delinquente, e si chiude il mese, il 28, con «L'albero» di Sara Petraglia, dure ragazze tra droga e dipendenza. Poi, due appuntamenti ad agosto: il 3 «Ciao bambino» di Edgardo Pistone (che incontrerà il pubblico del D'Azeglio), storia di un 17enne che si innamora di una prostituta e il 6 «Il mio compleanno» di Christian Filippi, anche lui in arena per presentare la sua opera prima. Giovani che raccontano di giovani: in un pugno di film, il manifesto di una generazione.

Per una storia del cinema

È il mare il grande protagonista della rassegna a ingresso gratuito del giovedì: dal nostalgico e divertente «Sapore di mare» a «Travolti da un insolito destino», da «Moby Dick» a «L'isola del tesoro», un cinema senza salvagente visto dallo specchietto retrovisore.

The original ones

Da anni, uno degli appuntamenti prediletti dal pubblico della sala (e dell'arena) dell'Oltretorrente: i film in lingua originale sottotitolati in italiano. Per quattro martedì, a partire dal 15, gli attori parleranno nella loro lingua madre, in questo caso l'inglese: in cartellone, «Giurato numero 2», «A real pain», «A complete unknown» e «Conclave».

Insostenibile

Prosegue anche la rassegna di 24fps, che questo mese porta a Parma registe di grandi documentari ambientalisti: Jennifer Rainsford scende in arena il 13 con «All of ouir heartbeats are connected through exploding stars», sulle conseguenze del devastante terremoto giapponese del 2011.

La serata evento

Ma a proposito di documentari, il D'Azeglio, infine, sfida anche i luoghi comuni sull'alimentazione sostenibile. Dall'Inghilterra arriva infatti «Non sarò mai vegano» (il 10), per nulla scontata riflessione sul nostro rapporto col cibo.

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Ritrovarsi a Tokyo, la parte mancante

La mia recensione di “Ritrovarsi a Tokyo”

Comincia dentro a uno specchietto retrovisore, con la vita (e tutto il resto) che non smette di scorrere alle spalle del protagonista, questo film: e non potrebbe essere altrimenti, là dove, nella notte metallica e «altra», conta sempre più quello che hai lasciato indietro piuttosto che la strada che ti ritrovi davanti. Come se quella parte mancante (non a caso il titolo originale...) fosse il segreto rimosso del tutto: il pezzo che risolve il puzzle, l'ingranaggio emotivo che rimette in carica il cuore. Ci sono perfect days che non sono perfetti per niente in «Ritrovarsi a Tokyo» di Guillaume Senez, dove l'insopprimibile necessità di essere e restare padre occupa lo spazio bianco di un'umanità sospesa, per sempre straniera, in patria o no, lost in translation nel girotondo di domande inascoltate e di cavilli incomprensibili, quando anche la lingua che credevi di avere imparato sembra essere,, in un attimo, dimenticata.

Come per Jay, ex chef francese, che guida un taxi e colleziona in camere-santuari lacrime e ricordi. Non vede la figlia da 9 anni, da quando la moglie giapponese, che ha la legge, per quanto ingiusta, dalla sua, ha fatto le valigie ed è tornata a Tokyo: non ha mai smesso di cercare la ragazzina, ma ormai è sul punto di arrendersi. Poi, una mattina...

Affondata la rabbia e il senso di colpa in una logorante strategia della pazienza, decisamente più zen che occidentale, il film stretto, intimo, anche tenero (pur nella disperazione) di Senez cerca di riannodare, nel dolore amplificato della separazione, il legame, fragile e insieme fortissimo, che tiene se non fisicamente idealmente uniti un padre con la propria figlia, confermando quanto la paternità ritrovata sia uno dei temi più frequentati del cinema degli ultimi tempi.

Forse anche per questo la pellicola, che trova nel sempre bravissimo Romain DurisTutti i battiti del mio cuore», «L'appartamento spagnolo») un fascio di nervi di empatica intensità, assomiglia a tante altre cose già viste e pecca a tratti di didascalismo. Ma, tra denuncia e struggimento, sul possibile sentimentalismo prevale alla fine il senso di spaesamento, l'approccio umanista e la determinazione ferita di chi va incontro al suo destino sperando che un selfie sia per sempre.

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