Disobedience: la libertà è donna
Sarà per l'imbarazzo spesso, il fragoroso non detto, quell'inquietante sospeso: sarà per quel desiderio bloccato, frenato, represso, mentre l'acqua scorre senza che nessuno la chiuda. Saranno quegli sguardi, quei discorsi muti. Sarà per questo che pensi che <Disobedience> più di tutto sia un bellissimo film sulla <distanza>: quel non toccarsi, quel camminare mai troppo vicini, quelle separazioni dettate dalle convenzioni, per ritrovarsi poi magari ancora vive sul ciglio di un bacio impacciato, sulle dita di una mano che sposta, incerta, una ciocca di capelli dalla fronte dell'altra.
E' un percorso coerente quello del cileno Sebastian Lelio, che – dopo <Gloria> e <Una donna fantastica> (Oscar per il miglior film straniero) - persevera nella sua, intensa e consapevole, esplorazione di personaggi femminili che cercano di affermare la propria identità in un sistema che invece le rifiuta, le respinge, le esclude. Donne che una società rigida e chiusa vorrebbe ai margini: e che il regista 44enne rimette invece al centro dell'inquadratura.
Come nel caso di Ronit che, dopo la morte del padre, uno stimato rabbino, da New York torna a Londra, nell'immutabile quartiere ebraico ortodosso dove è cresciuta: mondo nel mondo in cui parrucche e abiti neri (non) ci fanno migliori davanti a Dio. Qui incontra, dopo anni di <esilio>, gli amici di una volta Dovid e, soprattutto, sua moglie Esti...
Già empatico dal prologo, con quell'inizio a quadri, privo di didascalie e cuciture (la vita senza le parti noiose...), <Disobedience> è un film affascinante che, complici anche due interpreti in stato di grazia (le due Rachel: Weisz e McAdams), si muove tra passione e fede, carne e spirito, volere e dovere, in un continuo oltrepassare e tornare al di qua della linea immaginaria del proibito. Nella terra degli uomini, in cui in certi giorni la tensione stringe più del nodo alla cravatta: e la libertà di scelta è insieme privilegio e fardello.