Lazzaro felice, parabola che odora di buono
Ha una verità di paesaggi, di cose, di ciminiere, di tazzine di caffè spaiate, di erba orgogliosa che cresce dove non ti aspetti a costo di bucare l’asfalto, di santini da tenere sotto il materasso, il cinema intimo, rurale, quasi assente di Alice Rohrwacher; un'aria rarefatta che si porta dietro una poesia sincera, amara eppure tenera, dove gli ultimi saranno e resteranno sempre gli ultimi, ma almeno saranno liberi: un che di zavattiniano, un modo alla Olmi, un'eco di Citti e Pasolini, una piccola speranza nel mondo orrendo dove gli sfruttati di ieri sono i miserabili di oggi.
Premiato all'ultimo Festival di Cannes per la miglior sceneggiatura (ad ex aequo con «Trois visages», il docu-film dell'iraniano Panahi), accolto sulla Croisette da applausi insistenti (tra cui quelli di Roberto Benigni che è saltato - non metaforicamente - sul tappeto rosso per sostenere la moglie Nicoletta Braschi che qui ha un piccolo ruolo), già comprato per gli Usa dalla potentissima Netflix, «Lazzaro felice», terza regia della 36enne autrice di Fiesole (che anche stavolta dirige la sorella Alba), racconta il grande tradimento (e la conseguente fine) della civiltà contadina attraverso la parabola «francescana» di un Candido moderno (il Lazzaro del titolo), giovane che «odora di buono», ingenuo e innocente, che, in un passato ancora recente, lavora (non pagato, quasi fosse un servo della gleba) come bracciante in campagna.
Un giorno si ammala: si risveglierà ai giorni nostri. Dove tutto è cambiato: e non in meglio. Sospesa nel tempo, disuguale, gentile, stranita, l'originale fiaba della Rohrwacher traveste coi panni del realismo fantastico un manifesto politico che getta un ponte immaginario tra l'Italia contadina, tenuta per anni nell'ignoranza e nell'isolamento dai «padroni» e quella odierna della grande crisi, smarrita e svuotata di senso e ruolo, costretta a camminare sullo strapiombo dell'etica. Un acquerello che assomiglia a un fiore non ancora appassito, «Lazzaro felice», che conta in egual misura meriti e rischi, con quelle trappole che si costruisce da solo, quel suo naturalismo che al medesimo tempo attrae e respinge. Frutto di un cinema che non ama gli schemi e pratica il vizio di essere giusto in un mondo sbagliato. Cercando, nell'opporsi al cinismo imperante, i suoi simili: come un lupo che ulula nella convinzione che qualcuno, da qualche parte, risponda.