The irishman, quei bravi, vecchi, ragazzi
C’è qualcosa di definitivo (non mi piace dire «testamentario»), di «inevitabile» anche nell’approccio, nella modalità narrativa (come fosse la pietra tombale della New Hollywood, nel senso che un cinema così non si farà più), che fa di «The Irishman» un classico ancora prima di diventarlo. Come in quella frase che per i mafiosi è già sentenza: «E’ quello che è». Non ci puoi fare niente, è andata così: inutile discutere. Si fa carico di tutto questo Martin Scorsese, del corso di un tempo che sta per finire, nel suo ultimo film, fluviale, epico e ricco di suggestioni.
Erano bravi ragazzi, ma invecchiano come tutti gli altri. E anche per loro, che per mandare un messaggio non usano il postino (ma fanno saltare in aria un’auto...) ed emettono sentenze di morte mentre condiscono l’insalata (con olio e aceto Made in Italy, si intende), il tempo passa. Che guardi in tv l’assassinio di JFK e dopo un attimo si sta già scatenando la guerra dei Balcani. Perché a tutto c’è rimedio: tranne che alla morte.
E’ un film inesorabile e appassionante, un tributo al cinema e all’America, «The Irishman», l’ultimo lavoro di Martin Scorsese che su una strada lastricata di sangue e misteri inconfessabili («tre persone mantengono un segreto se due di loro sono morte») accompagna i suoi «oldfellas» (ringiovaniti digitalmente) lungo il viale del tramonto, al capolinea di un’epoca, all’inevitabile incontro con l’oblio: là dove la violenza, che li ha resi prima rispettati (e a volte rispettabili), finisce per strappargli per sempre l’affetto di chi amano.
Con il solito stile sinfonico, polistrumentale, già evidente nel bellissimo piano sequenza con cui si apre il film (ripetuto alla rovescia prima dell’epilogo), Scorsese dirige i «tre tenori» (i «soci» di sempre Robert De Niro e Joe Pesci e la new entry Al Pacino, strepitoso) ripercorrendo cinque decenni di storia criminale, seguendo i passi di Frank Sheeran (De Niro), da camionista a sicario della mafia. Per poi arrivare a guardare le spalle addirittura a Jimmy Hoffa, l’uomo più potente d’America dopo il presidente, il capo dei sindacati maniaco del gelato e della puntualità, famoso negli anni ‘50 quanto Elvis.
Fermi immagine, ralenti, sovrimpressioni che paiono lapidi: sorretto dai dialoghi effervescenti del premio Oscar Steven Zaillian (che, lavora con originalità sul linguaggio e gergo mafioso, come quando i protagonisti parlano in italiano), «The Irishman» entra nel meccanismo e nella mentalità criminale dalla porta principale: tre e ore mezza (che volano) di cinema monumentale, crepuscolare, poco appariscente, specie se raffrontato a «Quei bravi ragazzi« o a «Casinò». Un film che ha in sé la cifra del commiato, il senso dell’addio, la nostalgia di qualcosa che è stato. E non sarà più.