Il colpevole: il cinema in una stanza
C'è una stanza. Un telefono. E due voci. Che si rincorrono, nella notte più buia. Voci che hanno corpi e vestiti, smorfie e passato: unici attori e attrici (con o senza volto) in scena. Mentre il tono, la preoccupazione, l'attesa o l'esitare scrivono, insieme ai rumori di fondo, il copione nel suo farsi. A volte basta poco per fare un grande film, altre pochissimo: conta piuttosto quello che ci metti in mezzo, nell'interlinea emotivo che abita tra una parola e l'altra, tra le pause che definiscono il tutto. E' un gran bel <film da fermo>, <Il colpevole>: interamente girato nello stesso, claustrofobico e asettico, ambiente, in unità di tempo e luogo, costantemente incollato alla faccia del protagonista. Un poliziotto messo per punizione a rispondere al numero d'emergenza. E' l'ultima sera: il giorno dopo lo aspetta il processo che deciderà della sua carriera. Ma quando il telefono squilla, dall'altro capo del filo c'è una donna disperata che dice di essere stata rapita...
Incalzante, tesissimo, sempre più angosciante, <Il colpevole>, premiatissimo debutto (da Macao a Rotterdam, passando per Torino, dove ha vinto il premio del pubblico oltre che i riconoscimenti per il migliore attore e la miglior sceneggiatura) del danese Gustav Möller, non può non fare pensare a <Locke>, ma va persino oltre nel trasformare il thriller in catarsi, dove la salvezza altrui è la porta, il varco, per arivare alla propria. E quell'indagine dove niente è come sembra diventa percorso etico verso la cosapevolezza, in cui l'accettazione della propria colpa è l'unico riscatto possibile, la sola via d'uscita.