1917, vince solo chi sopravvive

C'è un movimento, in <1917>, che contiene tutti gli altri: il primo, a ritroso, che mette le lancette all'indietro. E allo stesso tempo va incontro alla platea, la tira dentro allo schermo, sullo stesso piano, nel medesimo campo di battaglia. A provare, un secolo dopo, l'angoscia di un giorno infinito, là dove fioriscono i ciliegi e i topi regnano su quel che resta del mondo. Ha qualcosa di <Salvate il soldato Ryan>, ma guarda anche a <Gli anni spezzati>, il febbrile, sinistro e anti-epico film di Sam Mendes, il regista che riuscì a trovare la bellezza anche in una busta di plastica sbattuta dal vento: e che adesso fa tesoro dei racconti del nonno soldato per superare una trincea che è anche dentro di noi.

Girato in un unico, finto, eppure clamoroso piano sequenza (pari come virtuosismo a quello di <Birdman> ma con un coefficiente maggiore di difficoltà), <1917>, stretto sui protagonisti, soffocante come un respiro trattenuto per due ore, implacabile nel non lasciare (né a loro né a noi) spazio, né scampo, né requie, si muove di corsa nella terra di nessuno verso un'utopia di salvezza, in un inferno labirintico di paure e fantasmi, dove tra cunicoli, reticolati e notti illuminate dai mortai, non riesci mai nemmeno a distinguere davvero il vero  volto, l'espressione autentica, del nemico. 

E' una missione impossibile quella che Mendes, che a sua volta insegue la prodezza artistica, affida ai due soldati inglesi Schofield e Blake durante la Prima Guerra Mondiale: senza alcuna copertura, devono avventurarsi in campo aperto superando le linee tedesche per impedire  al secondo battaglione Devon (dove è assegnato anche il fratello di Blake)  di attaccare, finendo così in una trappola mortale.

Virato al colore del fango e delle pozzanghere (strepitoso il lavoro sulla luce naturale del direttore della fotografia Roger Deakins, una carriera da 15 nomination all'Oscar), <1917>  non confonde il dovere col coraggio né contrabbanda l'eroismo (che non è di questo mondo) con la condizione umana, facendo indossare la divisa a due attori non ancora divi (anche se il volto pallido e irregolare di George MacKay aveva già lasciato il segno in <Captain Fantastic>) volutamente <qualunque> , amplificando così il senso di (inutile) tragedia comune di un conflitto combattuto soprattutto sulla pelle dei ragazzi. 

E' vero, non tutto è credibile e il meccanismo narrativo risente un po' di una costruzione a fasi e <muri> che ricorda il passaggio al livello successivo del videogioco: ma il war movie di Mendes - vincitore dei Golden Globes come miglior film drammatico e miglior regia e candidato a 10 Oscar -, ha soluzioni tecniche e visive  splendide per potenza e lirismo. E non ha paura di allontanarsi da una dimensione politica (come quella, per capirci, di <Orizzonti di gloria>) per fare del suo racconto una metafora esistenziale, in una vita, che anche fuori dall'eccezionalità dell'evento, è fronte, trincea, percorso ad ostacoli, prova da superare. E in cui c'è un solo vincitore: chi sopravvive.

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