The father, se la vecchiaia e’ un film dell’orrore
Pensi di trovarti di fronte a dramma da camera - e non c'è dubbio che lo sia -, poi ti illudi che in fondo potrebbe essere anche un sofisticato thriller della mente. Ma alla fine, capisci. Capisci, tuo malgrado, che quel grande complotto della terza età che hai davanti è «semplicemente» un horror: perché non c'è niente, ma davvero niente, che possa fare più paura - in un film e là fuori -, di invecchiare.
Non è solo un bell'esercizio «The Father», un congegno raffinato di impianto spietatamente teatrale: ma è piuttosto un film crudele e pieno di fantasmi, di inaccettabile e immorale (tranquilli, sono complimenti) verità. Dove oltre a consumarsi il più straziante dei cambi di ruolo - quello in cui i figli diventano genitori dei loro stessi padri -, il comune spaesamento di un anziano e la sua conseguente perdita di ogni sicurezza, di ogni più evidente e scontata (e ormai invece labile e fumosa) certezza, diventa la chiave che apre una riflessione ardita e alta su ciò che è reale e su ciò che non lo è affatto, ma che crediamo (e vogliamo) con tutte le nostre (disperate) forze che lo sia: che è caratteristica propria, se ci pensate bene, del senso stesso del cinema, ma anche, in modo più sottile, insinuante, di un'epoca - la nostra - che crede solo a quello che vuole credere, che sia vero oppure no.
Esordio potente e in un certo senso spiazzante del francese Florian Zeller che ha portato sullo schermo una sua premiatissima piece teatrale (riadattata per lo schermo con l'aiuto di Christopher Hampton, l'autore del copione de «Le relazioni pericolose»), «The Father» nel raccontare di un anziano (Anthony Hopkins) affetto da demenza senile e di sua figlia Anne (Olivia Colman) che si occupa amorevolmente di lui, gioca su più piani temporali, costringendo lo spettatore (che forse sarà stato, dolorosamente, dall'altra parte della barricata) a mettersi nei panni del protagonista, a identificarsi con il suo stesso smarrimento, mentre vertiginosi e spericolati cambi d'umore certificano la perdita di sé, l'incapacità di giudizio, l'impossibilità di ammettere la malattia. Da chi ne è affetto così come anche da chi cerca invano di porvi rimedio, pagando a livello emotivo un prezzo altissimo.
Il film commuove e disturba, è allo stesso tempo «spaventoso» e toccante: l'uso narrativo degli spazi (quella casa «viva», che è personaggio insieme a quelli in carne ed ossa), della musica classica, del continuo cambio di prospettiva ne fanno un labirinto di umana pietas dove basterà guardare con attenzione come cammina sir Anthony Hopkins (premiato con l'Oscar per questo film che ha vinto il medesimo riconoscimento anche per la sceneggiatura non originale) e ascoltare come respira - oltre che, per tutta la settimana, sentirlo parlare con la sua vera voce, nella versione non doppiata - per comprendere davvero cos'è un (grandissimo) attore. Schierandoci insieme a lui dalla parte del torto; perché sì, «c'è qualcosa che non torna»: ed è la nostra vita.