Comandante, Favino e la legge del mare

Com'è profondo il mare. E come è giusta, inderogabile, indissolubile, la sua legge. Che puoi anche non crederci: ma nell'immenso e gelido oceano della follia, naufraghi, prima o poi, li siamo tutti. Un'umanità fragile che si scopre più forte dell'odio, stretta sulla scialuppa della Storia, che se le regole sono sbagliate allora vadano al diavolo, vengano infrante, siano riscritte. Perché il nemico lo puoi pure affondare, ma «l'uomo io lo salvo».

E' tutto lì - e mica è poco - il senso di «Comandante», il film, intenso e anche toccante, con cui Edoardo De Angelis («Indivisibili») ha inaugurato (onore e onere) l'ottantesima edizione della Mostra del cinema di Venezia, storia vera e dal forte impatto metaforico (difficile non pensare a chi, oggi, rifiuta, per norma o indifferenza, di portare aiuto all'altro da sé, lasciando che le onde ne inghiottano vita, sogni e famiglia...) di Todaro Salvatore, ufficiale della Regia Marina Militare, fedele al re e pure al duce, ma più di tutti a se stesso. E alla sua coscienza.

Ottobre '40, seconda guerra mondiale: nonostante la schiena a pezzi, tenuta insieme in qualche modo da un busto che sembra un'armatura, piegato, ma non spezzato, dal dolore, Todaro è alla guida della missione «Agguato» nell'Oceano Atlantico a bordo del sommergibile Cappellini. Rispondendo al fuoco di un mercantile belga lo fa colare a picco: ma per due volte trae in salvo da morte certa i 26 superstiti dell'equipaggio nemico, mettendo a repentaglio così anche la sua vita e quella dei suoi uomini...

Filmone bellico-morale da 15 milioni di euro, «Comandante» va oltre il virile eroismo morso più di una volta alle caviglie dalla retorica, per mettere invece in evidenza il rumore metallico della paura, la sua densità, il respiro rotto che scava solchi in un destino comunque segnato: l'umanità indifesa di chi è sulla stessa barca (e il film cresce proprio quando rinunciando all'enfasi delle parole lascia che siano le immagini a testimoniare lo sfinimento comune di «vincitori» e vinti, ormai una cosa sola) e cerca, almeno, di restare a galla.

 

A tratti ridondante, tormentato da voci off che sarebbe stato meglio asciugare, afflitto nel finale da un fastidioso patriottismo da «italiani veri» (e «brava gente»), il film di De Angelis però sa emozionare, è costruito con rigore, ha uno sguardo non provinciale. E riporta alla luce dagli abissi, un personaggio complesso e illuminato (interpretato con la solita, mimetica, credibilità da Pierfrancesco Favino), guerriero asceta che credeva nelle profezie e nella sua vocazione, ma consapevole, ogni volta che partiva, di avere in tasca («l'arte del marinaio è morire in mare»), un biglietto di sola andata.