Filiberto Molossi Filiberto Molossi

Steve Jobs, l'uomo che suonava tutta l'orchestra

Come può un uomo che non sa fare nulla – che non è un ingegnere, né un progettista, né un designer, né un esperto di marketing né, tantomeno, un buon padre –, cioè insomma uno che non sa nemmeno piantare un chiodo alla parete, essere un genio del computer? <Semplice: i musicisti suonano uno strumento, io tutta l'orchestra>.

Lo scrivo prima che qualcuno alzi la mano e dica che ha degli impegni o che del signor Steve Jobs in questi anni ha sentito parlare fin troppo: questo film è bellissimo, ma bellissimo davvero. E feroce, impietoso, brillante, serrato, intelligente. E coraggioso, soprattutto: nel rifiutare le false comodità del biopic, innanzitutto, rompendo invece le regole di un genere per riscriverle alla propria maniera. E svelare il <mistero Jobs> - la personalità contraddittoria e visionaria di un rivoluzionario incapace di esser migliore delle sue invenzioni – attraverso tre momenti chiave della sua vita privata e professionale, corrispondenti ai lanci di altrettanti prodotti. Come una sinfonia in tre movimenti il nuovo film di Danny Boyle, ognuno colto visivamente in un formato cinematografico (16 millimetri, 35 millimetri e digitale) differente, dove il fondatore della Apple incontra e si scontra con le stesse persone. Il medesimo schema, ma sempre diverso: ripeti, chiudi e riavvia.

Dal 1984, l'anno in cui il pc fu personaggio dell'anno per il Time, al 1998 del successo planetario dell'iMac: interamente o quasi ambientato in un teatro (la vita come una pièce), il cui ventre ricorda il cervello di un computer, l'ultimo lavoro del regista di <Trainspotting> e <The millionaire> disegna con un approccio narrativo spericolato il ritratto definitivo del <mito> Jobs, rendendolo il protagonista (adorato come un dio dagli estranei, detestato da chiunque lo conoscesse bene...) di un film chiuso, <end to end>, soffocante e incalzante, pieno di sfumature e di ombre. Una pellicola che Boyle, con felicissima intuizione, costruisce come una serie continua di confronti, replicando, in pratica, in una sorta di sistema binario, il rapporto tra uomo e computer, client/server, film/spettatore. Arrivando al cuore delle ossessioni di un artista al comando sull'onda di scelte stilistiche accattivanti, interpreti perfetti (su tutti Michael Fassbender, a cui basta un maglione nero per diventare Jobs, e Kate Winslet, entrambi candidati all'Oscar) e dei dialoghi pirotecnici e sorprendenti del geniale Aaron Sorkin (premiato col Golden Globe, ma dimenticato dall'Academy: che sarebbe un po' come andare al Louvre e scordarsi di vedere la Gioconda...). Un film folgorante, osteggiato a lungo dalla vedova di Jobs, ma moderno e scomodo; non un santino né una demolizione, ma, più di tutto, l'evoluzione di un sistema operativo complesso: l'uomo.

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Filiberto Molossi Filiberto Molossi

Turing, Biancaneve e Steve Jobs: il mistero della mela morsicata

Avvertenza: se non avete ancora visto The imitation game (e volete andarlo a vedere) non leggete questo post. Perché vi spoilero il finale, anche se - essendo una storia vera - forse lo conoscete già. Il film racconta di Alan Turing, il cui nome magari non vi dice molto: ma è il tipo, non proprio qualunque, che ha vinto quasi da solo la seconda guerra mondiale decifrando il codice Enigma. Non solo: è anche il matematico solitario e scontroso che ha praticamente inventato un aggeggio di cui ora fatichiamo a fare a meno, il computer... Sì insomma: uno dei massimi geni dello scorso millennio. Talmente straordinario da meritarsi di essere perseguitato per la sua omosessualità. Roba da matti, ma c'è di più. Perché Turing, il Mosè degli informatici, è morto in un modo singolare, degno della sua personalità: suicida con una mela avvelenata. Considerati i suoi rapporti con i servizi segreti potrebbe averlo anche fatto fuori: ma il punto non è nemmeno questo. Turing muore come Biancaneve, una delle sue fiabe preferite da piccolo, il che è già incredibile di per se stesso. Poi un giorno arriva la Apple e nel logo mette una mela morsicata, quello che diventerà uno dei simboli più famosi del mondo. E qui il gioco si fa complesso: a molti, e non da adesso, sembra un bellissimo omaggio a Turing. Ma pare che Steve Jobs abbia sempre negato questa possibilità. E allora la storia del logo diventa leggenda: una teoria  dice che Jobs nel momento di fondare la Apple mangiasse solo frutta o anche che mentre era in riunione coi suoi collaboratori qualcuno avesse appoggiato sul tavolo una mela morsicata. E ancora che Jobs lavorasse in una piantagione di mele in Oregon e fosse rimasto particolarmente colpito da una copertina di un LP dei Beatles rappresentante appunto una mela. Non ultimo il fatto che usare Apple era facile come mangiare una mela e che il simbolo si prestava bene allo slogan "mordi questa mela", dove la mela era il frutto proibito e la parola morso (bite) in inglese suona molto simile a byte. Infine, per alcuni, la nascita del mitico logo è solo un omaggio a Newton. Possibile: ma certo se quella straordinaria mela stesse lì a celebrare Turing, vero padre del conputer, sarebbe bellissimo.

 

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