The hateful eight, quel mucchio selvaggio di bastardi senza gloria
Lo poteva fare solo lui in piena era digitale un film in 70 millimetri (che è il formato maxi di «Ben Hur» e di un cinema che non c'è più), resuscitando una tecnica che non si usa da 50 anni per poi (ennesima provocazione di un ragazzaccio mai davvero cresciuto) chiudere il mito della frontiera in una stanza, girando un western da camera (antitetico a «Revenant»: dove là tutto è spazio aperto e potere dell'immagine, qui è la parola, stretta tra le quattro mura di una merceria o negli spazi angusti di una diligenza, a essere soverchiante) aneddotico e teatrale, divertente e spietato, abbastanza almeno da convincere uno come Ennio Morricone (che a 87 anni potrebbe, alla sesta nomination, centrare un Oscar che gli è stato conferito solo alla carriera) a tornare a comporre musica, dopo 40 anni, per il genere che lo ha reso leggenda.
Lo poteva fare solo Tarantino, nel bene e nel male, l'attesissimo «The hateful height», in cui l'ex commesso del negozio di videocassette continua a manipolare la nostalgia, riproponendo il suo cinema tutto rabone e colpi di tacco (anche quando, a volte, sarebbe meglio tirare dritto in porta...), giocando col fuoco senza paura di scottarsi. Un western atipico, contaminato col giallo, concepito sin dalla genesi come un evento, in cui il regista di «Pulp fiction» invita al ballo un mucchio selvaggio di bastardi senza gloria e senza dio: dal violento cacciatore di taglie all'ex maggiore nordista, dal boia forbito alla prigioniera attesa dalla forca. In otto, bloccati da una tempesta di neve: ma chi tra loro non è chi dice di essere?
Diviso il film in capitoli, sempre bravissimo nel caricare la molla della tensione, nell'esasperare le sequenze fino all'inevitabile detonazione, Tarantino lavora molto bene (caratterizzandoli con talento) sui suoi odiosi personaggi-archetipo, spaccando «The hateful eight» in due, costruendo una prima parte sin troppo lenta, propedeutica però alla seconda, furibonda e splatter. Un po' «Django» e un po' «Le iene» (e un po', perché no, «Nodo alla gola»), la pellicola rispetto ai capolavori dello scatenato regista italo-americano (mi ostino a pensare che le cose migliori le abbia girate negli anni '90) è però meno pirotecnica e appassionante: la maniera a tratti prevale sul genio e i presunti riferimenti socio-politici all'attualità restano (tranne che per l'autore e per le masse adoranti dei suoi fan più fedeli) tali. Poi certo: il talento è cristallino (basterebbe l'apertura, con quel Cristo sepolto nella neve) e l'alchimia degli interpreti (tra tanti attori feticcio, brilla soprattutto l'unica donna, Jennifer Jason Leigh) funziona a meraviglia. Ma la bufera resta spesso fuori dalla porta.