Quel piccione che a Venezia si è mangiato un Leone
A volte ci vuole un po' di follia: mica tanta, appena un pizzico. Quel che basta per non muovere nemmeno sotto tortura la macchina da presa, buttare lì un titolo che già di per sé sa di beffa e giocare col cinema come se fosse la stessa cosa che indossare i Moon Boot a Ferragosto, in spiaggia. Che poi magari finiscono col prenderti sul serio: tanto da consegnarti, a sorpresa ma tra gli applausi, il Leone d'oro di Venezia...
Stravagante sin dalle premesse ancora prima che nella realizzazione, <Un piccione seduto su un ramo riflette sull'esistenza> scatta la surreale e bizzarra fotografia dell'essere umani. Diviso in 39 piani sequenza a camera fissa - finestre aperte su un mondo chiuso, stanze di vita comunicanti in bilico sul filo del paradosso -, il capitolo finale della <living trilogy> del 71enne Roy Andersson è figlio di un cinema delle idee felicemente spiazzante fatto di piccole storie e di gesti minimi di esistenziale rassegnazione: veri e propri quadri in movimento che si animano davanti ai nostri occhi, nella costruzione di istanti dove accade tutto e insieme niente.
Serissimi e piagnucolosi venditori di scherzi di carnevale (vi interessano dei denti da vampiro a metà prezzo?), un capitano di nave che soffre il mal di mare, una donna che vuole portare la borsetta coi gioielli nell'aldilà mentre i figli cercano di strappargliela. E re Carlo XII del 1700 o giù di lì che mentre il suo esercito batte in ritirata dopo la disfatta in battaglia entra in un bar dei giorni nostri perché deve andare in bagno...
Desaturati i colori, così da creare un mood stilistico volutamente spento, stinto, pallido, livido, frutto di una coinvolgente ricerca formale che mescola certe visioni di Edward Hopper con i dipinti di Bruegel (alla ricerca di un'astrazione che l'autore chiama <super realismo>), lo svedese Andersson osserva con occhio da entomologo, umorismo nordico (alla Kaurismaki) e il piacere dell'assurdo, un'umanità che mette sotto teca, proprio come gli uccelli impagliati che fanno triste mostra di sè nell'emblematica sequenza d'apertura: una società in estinzione, forse addirittura già morta anche se non lo sa, in grado di gesti orribili e incapace di chiedere perdono. Pesci nell'acquario virtuale di un film singolare, ispirato, spesso anche divertente: che conquista lo spettatore con una straniante e imprevista empatia.