Filiberto Molossi Filiberto Molossi

Seduzione, stile e un paio di guanti: Carol, la classe non è acqua

Ci sono film dove ha un senso, un significato, anche lo smalto per le unghie: e un paio di guanti dimenticati (non) per caso, un gioco di sguardi, un gesto apparentemente banale come una mano che indugia su una spalla o un piede che cerca la sua scarpa. Lo ha girato un regista interessato alle persone (alla natura e all’onestà dei loro sentimenti, così come alle loro privazioni) rievocando un’epoca - i borghesi anni ‘50 di Eisenhower - dove i giornali e le foto raccontavano tutto, uno dei film più belli e stilisticamente seducenti di questa stagione.
Tratto da un romanzo «scandalo» che Patricia Highsmith firmò con uno pseudonimo, candidato a 6 Oscar, l’ultimo, affascinante ed elegantissimo (dio è nei dettagli, come si dice) melodramma di Todd Haynes, racconta la storia d’amore (proibita per quei tempi) tra una donna sposata, madre di una bimba che adora, e la giovane commessa di un grande magazzino. Una forse insegue quella che non è più, l’altra la donna che non sarà mai: due personaggi bellissimi, vittime dei propri desideri, in bilico sul crepaccio del momento sbagliato (ma ne esiste uno giusto per amare e essere amate?), in fuga da un mondo che non le può capire, dalla soffocante messa in scena delle apparenze.
Ricreata la New York di 60 anni fa a Cincinnati, Haynes, tornato dietro la macchina da presa a 8 anni dal «dylaniato» «Io non sono qui» cita (non a caso) «Viale del tramonto» e guarda a «Lontano dal paradiso» (il suo film più noto) dimostrando splendida calligrafia e una classe che ha pochi uguali, spendendosi con attenzione e generosità in una ricostruzione raffinata che non riguarda solo gli ambienti (non più muti né inerti) ma arriva direttamente all’anima delle cose. Tra aneliti di libertà e differenze sociali, uomini deludenti e rivoltelle scariche, il regista dà spessore a una passione che si consuma, spesso e volentieri, dietro a vetrate, vetrine, finestrini bagnati dalla pioggia: come se ci fosse sempre qualcosa, un ostacolo trasparente eppure tangibile, a separare le due amanti; facendone allo stesso tempo un’intima scelta formale, un distacco dovuto, una sorta di rispetto, colma di riconoscente cortesia, per le sue protagoniste. A cui prestano molto più che un volto Cate Blanchett e Rooney Mara (migliore attrice, ad ex aequo con Emmanuelle Bercot, dell’ultimo Festival di Cannes), fantastiche.

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Filiberto Molossi Filiberto Molossi

Mon roi: le conseguenze dell'amore (fou)

Lui è un cazzaro di proporzioni bibliche, il <re degli idioti> (parole sue), inaffidabile, cialtrone, sempre in pista: insomma, praticamente irresistibile... Tanto che lei ci casca senza nemmeno passare dal via. Ma le conseguenze dell'amore sono spesso (im)prevedibili: che vai in clinica per un ginocchio rotto e poi scopri che a essere a pezzi invece è il cuore. La riabilitazione dei sentimenti e le dolorose fratture del desiderio in <Mon roi>, che parte bene ma poi, quando volano gli stracci (dai baci ai tranquillanti il passo è breve), rischia di deragliare con masochistica prevedibilità come la relazione che racconta.

Diretta con l'abituale stile energico e vitale dalla 39enne Maiwenn (di cui abbiamo preferito il precedente <Polisse>), la pellicola ha un bel piglio informale, sa essere brillante e autentica e, complici dialoghi non privi di pepe, a tratti pirotecnici, srotola in flashback la love story sopra le righe, esaltante e autodistruttiva, tra Tony (Emmanuelle Bercot, miglior attrice a Cannes ad ex aequo con la Rooney Mara di Carol) e Georgio (Vincent Cassel).

Un po' facile nell'assunto (la ricostruzione fisica come metafora di una guarigione morale), <Mon roi> ha le carte in regola per raccontare l'impossibilità di stare insieme così come anche lontani, ma molto sa di già visto. Resta notevole però l'alchimia degli interpreti, straripanti.

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