La battaglia dei sessi: se il mondo cambia con un serve and volley
<I tempi cambiano, dovresti saperlo: li hai cambiati tu>.
Sembra ieri: invece è oggi. Scende in campo per giocare l'infinito match della parità uomo/donna, ma al respiro profondo prima dell'ultimo scambio, alzato un altro pallonetto per superare la rete sempre più alta dei pregiudizi, <La battaglia dei sessi> si ritrova a mettere sul tabellone segnapunti qualcosa di più di una pure epica lotta femminista: il libero arbitrio, ad esempio, il dovere di essere se stessi, la libertà di potere vivere apertamente (e con pari diritti) la propria sessualità. Perché dall'America di Nixon a quella di Trump (e Weinstein...) di anni sì, ne sono passati: a volte invano, altre no. Lo sanno bene Jonathan Dayton e Valerie Faris, che obbligano il cinema politico a indossare i calzoncini corti dello sport movie, per rigiocare la storica partita-evento del '73 (grondante metafore, trappole e svolte) tra due tennisti sui generis: il 55enne Bobby Riggs, ex numero uno del mondo, scommettitore seriale e <maiale maschilista> (la definizione è sua) e la 29enne Billie Jean King, sei volte vincitrice di Wimbledon, lesbica non ancora dichiarata e capofila della rivolta contro la federazione Usa per ottenere un uguale trattamento economico tra maschi e femmine. Chi vince si prende tutto: soldi, gloria, rispetto.
Sulle prime un po' troppo prudente, guardingo, come se giocasse da fondocampo in attesa dell'errore dell'avversario, poi via via più intraprendente, il film di Dayton e Faris (coppia rodatissima anche nella vita) guarda con nostalgia ad anni ribelli, vivaci, mai seduti, per raccontare la storia di una rivoluzione non ancora del tutto compiuta, andando però oltre lo scontro uomo/donna per accarezzare la solitudine dei numeri uno, nel confronto serrato tra la personalità strabordante, immatura e cialtronesca di Riggs e l'impegno, la consapevolezza e il coraggio della King. La pellicola libera il dritto con parsimonia e sconta un percorso sin troppo lineare, ma seppure la grazia e l'ironia di <Little Miss Sunshine> (il lavoro più famoso dei due registi) restino distanti, <La battaglia dei sessi> lavora bene, a forza di smorzate, sulle paure e sulle debolezze dei suoi protagonisti, restituendo, anche a un livello più intimo, la portata extrasportiva di un avvenimento cardine nel cammino verso un'uguaglianza non solo formale. Se il match è vinto molto del merito va però anche al trasformista Steve Carell e al premio Oscar Emma Stone, una che fino all'altro giorno non aveva mai tenuto una racchetta in mano: ha giocato ogni giorno per tre mesi di fila, anche con la vera King come maestra. In fondo a Billie Jean glielo doveva: se il suo stipendio oggi è lo stesso di quello dei colleghi attori è grazie al mitico serve and volley di questa combattiva signora. come maestra.