Pericle il nero, il riscatto dell'invisibile
<Io mi chiamo Pericle e di mestiere faccio il culo alla gente>. Che mica è una metafora, mica è un modo di dire: che se magari qualcuno non l'ha capita come la deve capire ci pensa lui, ci pensa Pericle. Che non ha santi in paradiso e passato nemmeno e del film che porta il suo nome è sicuramente la cosa migliore: figlio di un degrado (anche morale) che nemmeno riconosce, orfano di se stesso, sradicato, stanco, nato sconfitto. Un primitivo, prima esiliato e poi braccato: solitario tirapiedi del crimine tentato dalla normalità.
Protagonista insolito, tra palazzacci popolari, debiti da riscuotere e un cielo che non cambia mai colore, di un film buio e sommerso, molto livido, ruvido, scarno: quello che Stefano Mordini, come già per <Acciaio>, pesca in libreria, traducendo per immagini il romanzo <cattivo> di Giuseppe Ferrandino. Materia per un noir capace di dialogare con il cinema verità (la macchina a mano, quello sguardo senza sconti), tra gangster miserabili (lontani dai cliché di quelli cool e fascinosi di certe serie tv) e carrellate suburbane, frontiere non delineate e squarci di periferia.
A Liegi, al giorno d'oggi: Pericle è agli ordini di un boss della camorra. Punisce chi non paga o parla troppo, si droga, fa un po' di soldi con il porno. Ma un giorno manda all'ospedale la persona sbagliata: e allora tutto si complica...
Co-prodotto dai fratelli Dardenne (il cui ruolo ha forse anche giocato a garantire al film una prestigiosa vetrina a Cannes in <Un certain regard>), <Pericle il nero> ha certe similitudini nel linguaggio e la stessa passione dei rigorosi e acclamati autori belgi per i marginali, per gli invisibili, per gli anonimi, ma non ne condivide, almeno non fino in fondo, la medesima tensione etica, la loro logica, fredda, eppure emozionale capacità di sintesi.
Perché se il film di Mordini parte bene, è anche vero che poi, specie nella seconda parte, manca di continuità, si dilunga inutilmente su particolari di scarso interesse (la storia del padre del protagonista), procede a sbalzi, dilata fin troppo certe situazioni, contorcendosi su stesso: secco dall'inizio alla fine dal punto di vista dello sguardo, ma non da quello della scrittura, dove, sempre più letterario che cinematografico, ha voglia di fare e disfare, di (ri)dire quando invece era meglio tacere o asciugare.
Scamarcio regge il confronto con un ruolo scomodo (che ne conferma l'evoluzione e la volontà di allontanarsi dallo stereotipo di <più amato dalle ragazzine>), ma il film, una volta salito sul treno del già visto, appare troppo guardingo, meno spavaldo (o incosciente) del suo protagonista.