Una metafora da scalare: se l'Everest è Moby Dick
La montagna è Moby Dick, la montagna è dio: un'enorme metafora di ghiaccio e furia, un baratro senza fine sotto i piedi dell'ambizione, della vanità, dell'irrefrenabile desiderio dell'uomo di affrontare (e superare) qualcosa o almeno se stesso, a costo di rischiare la propria vita pur di dimostrare di averne ancora una. Alla ricerca entusiasta e affannosa della (grande) bellezza che nessuno ha mai visto, sogno accecante nel bianco che annulla e a volte divora. Perché il problema non è arrivare in cima: è tornare indietro.
E' un'anabasi infernale (quel <coming home> che nutre le radici della cultura americana), un film sul limite, sul momento esatto in cui, a 3 passi dall'obiettivo, devi capire che è il momento di rinunciare, <Everest>, il film, angosciante, di Baltasar Kormakur: un'odissea sotto zero del coraggio e della disperazione che il regista islandese traduce in un 3 D di impatto, cercando un compromesso tra avventura spettacolare (e di massa) e introspezione esistenzialista.
Storia vera di una tragica spedizione sulla montagna più alta del mondo (raccontata da <Aria sottile>, il libro di Jon Krakauer, lo stesso di <Into the wild>) , <Everest>, polemico sulla commercializzazione e speculazione del confronto tra uomo e natura (il business delle scalate <per tutti>), ampio e vertiginoso nella regia, fisico nella ricostruzione che cerca di essere il meno possibile digitale, paga però un approccio un po' troppo convenzionale, un realismo opportuno ma a tratti congelato che spesso esclude l'astrazione. Karmakur, ben servito dagli interpreti, ha però il merito di non spingere troppo sull'acceleratore, evitando la spettacolarizzazione della tragedia. Mentre dentro e fuori lo schermo si rincorre sempre la stessa domanda: <Perché lo fai?>.