Il fuoco della vendetta: la mia recensione
E' l'America dove la classe operaia non va in paradiso, quella proletaria che sputa sangue e fatica in paesi-fabbrica e beve un whisky in un sorso solo, tra fumo di ciminiere e sensi di colpa: l'America pre Obama e provinciale dei vecchi che muoiono in casa e dei reduci che fanno a pugni per sopravvivere, dove gli uomini sono uomini per davvero, di quelli che si parlano a due centimetri di distanza fissandosi negli occhi. C'è quel Paese lì, primitivo e disilluso, ne «Il fuoco della vendetta», un western moderno, ruvido e virile, che rende omaggio a «Il cacciatore» e cerca vendetta (o giustizia, fate voi) sulle note dei Pearl Jam.
Prodotto da Leonardo DiCaprio e Ridley Scott e diretto da Scott Cooper (il regista, con tante qualità e alcuni limiti, di «Crazy heart»), «Out of the furnace» (questo il titolo originale con cui venne presentato al Festival di Roma l'anno passato), è un film violento e minaccioso che, dopo un bellissimo prologo al drive in, tempera rabbia e amarezza sulla pelle dei working class heroes: gente come Russell, operaio in acciaieria, pochi grilli per la testa, e di suo fratello minore Rodney, avanti e indietro dall'inferno dell'Iraq e un certo talento per mettersi nei casini. Quando quest'ultimo, finito nel giro dei combattimenti clandestini, scompare nel nulla, Russell si mette alla sua ricerca...
E' fatto di carta vetrata, ispido e accogliente come un maglione di lana grezza dopo una giornata di pioggia, feroce quanto lo sa essere la vita, «Il fuoco della vendetta»: una pellicola raccontata a mani nude dove esce forte la famiglia (e i suoi legami indissolubili, quasi fossero un patto d'onore, un accordo non scritto), un film (che si sarebbe dovuto chiamare «Polvere alla polvere»: il titolo attuale è stato suggerito al regista da Malick), dove c'è una legge oltre la legge, in cui l'ambientazione periferica e marginale sopperisce a un copione non particolarmente originale, che nell'ultima mezz'ora si fa prevedibile.
Cooper non ha ancora le spalle larghe dell'autore, ma sa dare un valore alle «piccole» cose e la necessaria densità a una sequenza. E soprattutto è un ottimo direttore di attori, qui servito egregiamente da un cast all star: ma se Christian Bale e Casey Affleck valgono il prezzo del biglietto, è Woody Harrelson a fare la differenza: vera e propria incarnazione del male assoluto che a chi ha il coraggio di chiedergli a muso duro «hai problemi con me?» risponde «ho problemi con chiunque».