Filiberto Molossi Filiberto Molossi

Alien: Covenant, un ripasso con poche idee

 <Lo senti?>. <Che cosa?>. <Il niente>.

Sulle note di Wagner, tra i versi del più famoso dei sonetti di Shelley, l'irresistibile tentazione di essere (un) dio: alla ricerca (ancora) di una nuova frontiera, dove, nel mistero assoluto della creazione, la macchina è più uomo dell'uomo. Promette molto ma mantiene poco, più interessato a riproporre vecchi (e fortunati) schemi che non a cercare nuove (magari rischiose) piste e idee, l'ultimo <Alien>, ennesimo capitolo di una saga che i suoi 38 anni li porta con baldanza ma senza riuscire, d'altra parte, a nascondere i primi acciacchi. Meno filosofico di <Prometheus> (le grandi domande dell'esistenza qui appaiono solo annacquate), di cui è il sequel, il film di Ridley Scott (80 anni a novembre), nella ripetizione di un copione collaudato (un gruppo di coloni spaziali, un pianeta sconosciuto, l'inevitabile scontro con la <creatura>), solletica la nostra immaginazione, ma tra le molteplici possibilità che gli si aprono davanti si imbatte nel scivolosissimo (e assai sfruttato) tema del doppio, non particolarmente necessario e risolto inoltre (considerate le ambizioni di fondo) in maniera piuttosto semplicistica.

L'astronave Covenant è diretta su un lontano pianeta, ma qualcosa va storto: l'equipaggio si sveglia prima del previsto dal sonno criogenico per affrontare un'emergenza. E' solo l'inizio di un terribile incubo: che porterà i <pionieri> a doversi difendere dalla minaccia aliena.

Sin troppo esplicito, quando non telefonato (come nel finale a <sorpresa>: e le virgolette non sono messe a caso...), <Alien: Covenant>, ansiogeno solo a tratti, ripassa molto e inventa poco, rivelando in maniera scoperta le proprie intenzioni quando invece avrebbe fatto meglio a confonderle, a mascherarle. E se tute, zaini, giubbotti, astronavi che spiegano le vele, caschi (quelli made in Parma dalla Northwall di Gianluca Martini...) e armi hanno un fascino perché sembrano appartenere a un'archeologia spaziale, le scene d'azione, dapprima cinetiche ed efficaci, si fanno via via molto già viste (come dinamica e situazione), lasciando lo spettatore in cerca di qualcosa di più e di meglio di un confronto allo specchio (quello tra gli automi David e Walter, entrambi interpretati da Michael Fassbender) che a volte sembra uscito da un brutto <Star Trek>. Peccato, perché la potenzialità della saga sembra intatta, anche se forse necessita di uno sguardo diverso, più iconoclasta. A costo di uccidere, insieme agli alieni, anche il mito.

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Filiberto Molossi Filiberto Molossi

Star Trek, 50 anni in cerca dell'ultima frontiera

<Più lontano andiamo più mi chiedo dove stiamo cercando di arrivare>.

E' in viaggio nello spazio profondo da 50 anni tondi (lunga vita e prosperità...) per spostare, ogni volta, un metro più in là l'ultima frontiera: sopravvissuto a mille battaglie contro chi non si rassegna alla pace, certo di potere trovare la speranza anche nell'impossibile, il mito duraturo di <Star Trek> - cinque serie televisive di cui una, la prima, leggendaria (ed eterna), e 13 film all'attivo – celebra il mezzo secolo tentando di venire a patti (dopo le polemiche seguite a <Into darkness>) con i fans più duri e puri, rispettando le regole dell'ingaggio (immancabile ad esempio il mix tra azione e ironia, che forse anzi è la cosa che funziona meglio) per poi prendere a calci gli alieni cattivi addirittura a tempo di rock...

Fanta saga avanguardista, interrazziale, transnazionale, da sempre culturalmente aperta (dopo avere sdoganato nel '68 il primo bacio tra un bianco e una nera della tv americana, ora conta nell'equipaggio un personaggio dichiaratamente gay con famiglia arcobaleno, Sulu, mentre uno degli attori protagonisti, Zachary Quinto, che interpreta Spock, ha fatto outing da anni), <Star Trek>, arrivato al terzo episodio del reboot, segna il passaggio di consegne in cabina di regia tra J.J.Abrams (accusato di <alto tradimento> per avere rinverdito <Star Wars>, la franchigia rivale...) e il taiwanese Justin Li (suoi quattro <Fast and Furious>), che, dato smalto alle citazioni – da <Gli uccelli> di Hitchcock a <La grande fuga> - gioca la partita su tre campi differenti: l'Enterprise, un pianeta <proibito> e una grande base spaziale. Sono i tre luoghi dove i nostri eroi (tra cui Anton Yelchin, Chekov, drammaticamente scomparso in un incidente a soli 27 anni) combattono con l'apparentemente invincibile Kraal (cattivo spietato e complesso, ma non del tutto a fuoco), deciso a distruggere la Federazione...

Tanto spettacolare quanto, in alcune sequenze, confuso, <Star Trek Beyond> richiama le suggestioni della serie originale scatenando però gli effetti speciali e catastrofici della tecnologia odierna: il risultato è d'impatto, ma non abbastanza da rendere eccitante un universo (anche morale) già declinato (<mi sembra di vivere sempre lo stesso episodio>, dice Kirk e non a torto) molte volte. Forse anche perché il regista è frettoloso nel passare in rassegna dubbi e solitudine del capitano e dei suoi più cari amici, tra l'esempio (e la nostalgia) a volte insormontabile dei padri e il senso di un'unione (Merkel e soci imparino) che fa davvero la forza. Infine, una curiosità: pare che nel film faccia una comparsata, nel ruolo di un membro della flotta, anche Carlo Ancelotti. Lo cercano più dei Pokemon: bravo chi lo trova.

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Filiberto Molossi Filiberto Molossi

Che la forza sia con voi: Star Wars tra passato e futuro

<La cosa assurda è che il lato oscuro, la forza, i Jedi sono reali...: è vero, è tutto vero>.

Che il mito sia con voi: a quasi 40 anni dal film che cambiò il cinema, Hollywood sente il richiamo della luce. E' il tempo delle scelte: non si può scappare davanti al proprio destino, non si può più – non ora, non stavolta - rimanere neutrali. Ma perché tutto possa finire, tutto deve, inevitabilmente, ricominciare.

E' un'impresa monumentale, non tanto nella realizzazione (già di per sé ardua, complessa e costosissima: 200 milioni di dollari, per servirvi) ma quanto nella temerarietà della sfida, risvegliare la forza: c'è voluto l'inventore di <Lost>, J.J.Abrams, uno che ha giocato anche a reinventare <Star Trek>, per tentare la missione impossibile di mettere mano (per concluderla e insieme rilanciarla in una pioggia di spin off) alla saga più iconica, venerata e amata di sempre. Un evento mondiale, il nuovo <Star Wars>: e come potrebbe essere altrimenti? Roba che Spielberg (fan della prima ora) lo ha già visto 3 volte (e gli è piaciuto parecchio) e c'è chi, per giorni in coda, in attesa che aprisse la sala, si è pure sposato sul posto...

Ma fuori dalle chiacchiere, dal merchandising, dalle ossessionanti proiezioni degli incassi, il settimo episodio di una serie vista solo in Italia da oltre 16 milioni di persone, è soprattutto un film ponte tra il passato (l'originale del '77) e il futuro (la saga che sarà), una sorta di avvincente passaggio del testimone tra chi ha cominciato tutto e chi invece è chiamato a finirlo. Recuperato il gusto, anche estetico (con una scelta vintage che limita all'essenziale le prodezze digitali), dei primi <Guerre stellari>, Abrams (che non a caso ha girato in pellicola) lascia che il suo film oscilli tra il remake e il reebot riportando la favola spaziale (che qui, più che mai, è atto di fede) nei confini di uno schermo che non sembra abbastanza grande per contenerla.

Spettacolare, divertente, vertiginoso, <Star Wars> infiamma ancora la Galassia: nel momento del pericolo, vecchi eroi – come Han Solo (un Harrison Ford in grande forma) – e nuovi paladini del Bene (la mercante di rottami Rey – la grande rivelazione Daisy Ridley -, un personaggio che da sola fa il film, dimostrando che la forza, oggi, è donna...) accorrano in aiuto della principessa Leia (Carrie Fisher, la nonna di se stessa). Riaccesi i motori della space opera, Abrams legge nel deserto (a volte anche morale) di un mondo orfano e oppresso l'ansia contemporanea di uno scontro inevitabile, là dove oltre le spade laser balenano sotto la neve anche i dubbi e i tormenti di eroine e malvagi troppo soli che sanno che c'è un tempo per combattere e uno per morire. Il mix di avventura, ironia, azione e nostalgia è spesso irresistibile, ma va detto che a volte si avverte un'incrinatura, un tremito, nella forza: nel personaggio del cattivo di turno, ad esempio, debole perché poco scritto (ma anche Adam Driver, ben più convincente in <Hungry hearts> di Costanzo, ci mette del suo), in una certa fretta controproducente nello svelare colpi di scena potenti, in alcuni dettagli (ma perché un disertore peraltro non molto avvezzo ai combattimenti sa usare una spada laser?) che forse non sono tali. Resta il merito però di essere ripartiti e non con una marcia bassa: la saga è sveglia e lotta insieme a noi.

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