Personal shopper, il fantasma dell'io
E' un film sull'assenza, <Personal shopper>: degli altri - che sono <andati avanti> o, magari, non hanno abbastanza tempo, nonostante il loro mestiere sia <apparire>, per <esserci> -, ma anche di sè, di un io forse tradito, smarrito in rimorsi e desideri inespressi, mortificati, castrati. Un'assenza che, anche in questo caso, è più acuta presenza: e diventa tormento, dubbio, inganno.
Accolto dai fischi alla proiezione per la stampa all'ultimo Festival di Cannes, ma poi successivamente applaudito dal pubblico e, soprattutto, premiato dalla giuria (con la Palma per il miglior regista), l'ultimo film, nato per dividere, di Olivier Assayas si avventura sul terreno minato dello spiritismo (scomodando, tra finti documentari e più autentiche suggestioni, artisti e intellettuali come Victor Hugo e Hilma af Klint) per mescolare nello stesso guazzabuglio elaborazione del lutto, crisi d'identità, alta moda, storie di fantasmi, deriva hi tech (con i dialoghi sostituiti dai messaggini di WhatsApp), giallo soprannaturale: il risultato a tratti è davvero da brividi, ma non nel senso che si sarebbe aspettato l'autore.
Il quale, reduce dall'intrigante e assai profondo <Sils Maria> e pronto a tornare sul set niente di meno che con Stallone (non prima di avere firmato il copione dell'ultimo Polanski), porta sullo schermo la storia di Maureen (un'emaciata Kristen Stewart, intensa) che per lavoro sceglie gli abiti per una star del cinema e intanto attende un segno dal fratello gemello morto di recente. Ma un giorno un uomo misterioso la contatta via chat: cosa vuole? Cosa cerca?
Pasticciato e presuntuoso, nonostante non del tutto privo di fascino, thriller esistenzialista (nei momenti peggiori ricorda <La corrispondenza>, il più recente e censurabile lavoro di Tornatore), <Personal shopper> invece di giocare maggiormente di astrazione evoca gli spettri senza paura di mostrarli, imponendosi all'attenzione solo nel momento in cui, aggirati gli schemi, mette a confronto la terrena e sensuale vanità di abiti in grado di fare sentire in colpa (perché le è vietato indossarli) la protagonista e il suo stesso bisogno di spiritualità, la necessità di credere in un altrove, in qualcosa di diverso, di più.
Che poi quelle manifestazioni siano o meno una fantasia della ragazza è del tutto ininfluente: quel che conta è la riflessione sulla perdita, le ossessioni che lacerano, le ferite non rimarginabili. Quelle che lasciano cicatrici, che segnano: i film densi e, a volte, anche quelli sbagliati.