L'insulto: nessuno ha l'esclusiva della sofferenza
Chissà che in questi giorni, un po' folli e un po' amari, da Gerusalemme <liberata> (o comunque capitale), con l'inquilino della Casa Bianca che riaccende la miccia della polveriera Medio Oriente, non possa farsi largo questo film pieno di cicatrici e di insoluti, di torti e di ragioni, che invece ha una voglia inconfessabile di pace e cerca, sepolta chissà dove, la dignità e il (buon) senso della comprensione.
Apologo didascalico ma comunque efficace, <L'insulto>, emblematico film politico di Ziad Doueiri, usa il dramma giudiziario per fotografare il doloroso presente del Libano, Paese ferito - divorato dall'odio e accecato dall'ideologia e dall'orgoglio - che non riesce a voltare pagina. Una banale lite per una grondaia tra il meccanico Toni, di fede cristiana, e il capomastro palestinese Yasser (Kamel El Basha, migliore attore all'ultima Mostra del cinema di Venezia) si trasforma in un caso nazionale, con enormi ripercussioni per l'intera Beirut. Era solo una stupida grondaia: ma diventa una guerra.
Con piglio realistico (l'idea nasce da una vera lite tra il regista e un idraulico), Doueiri, a lungo operatore di macchina per Tarantino, va dal particolare all'universale per offrire lo spaccato di una nazione incapace di liberarsi dai fantasmi del passato, dove nessuno riesce a chiedere scusa e tutti, oltre ai loro motivi, hanno le proprie colpe. L'unico processo che si dovrebbe celebrare - non in aula ma nelle strade - è quello di riconciliazione nazionale. E' una strada lunga e dissestata, piena di trappole e speculazioni: ma Doueiri sa che <nessuno ha l'esclusiva della sofferenza>.