Dopo la rivoluzione: intervista al laureato Bertolucci
E'entrato in quel teatro - il Regio - che aveva 22 anni, e il furore addosso di chi sogna i sogni, immensi e infiniti, del cinema: regista ragazzino che per mano teneva il film che cambierà tutto, «Prima della rivoluzione». Ci è tornato 50 anni dopo, per riabbracciare una città che da ieri lo chiama dottore, con un bel carico di commozione nel raccontare quello che è successo (e sì, non è poco...) nel frattempo e nel mezzo, il mare di emozioni e di film dentro a quella, grande ed esaltante, «parentesi». Bernardo Bertolucci viene travolto dall'affetto della sua città: un sentimento che sopravvive al tempo, come certi fotogrammi che restano incastrati in un posto segreto del cuore.
Sono trascorsi 50 anni da «Prima della rivoluzione»: quanto è cambiata Parma da allora e quanto sei cambiato tu?
«Ho fatto un giretto veloce, dal teatro all'albergo: e mi è sembrata ancora quella di allora. E anch'io credo di essere quello di allora, come se avessi fatto il giro completo e avessi chiuso il cerchio: mi vergogno un po' a dirlo, ma è la verità».
Cosa significa ritirare proprio nella tua città la laurea ad honorem?
«E' una grande emozione, anche perché era tanto che non tornavo a Parma: e tornarci per questo motivo è stato molto forte, commovente. Sì, è stata una giornata di grandi emozioni: come alla fine, quando è stata proiettata una sequenza di “Prima della rivoluzione” ambientata al Teatro Regio nel '62, dove ci trovavamo oggi».
E a Casarola torni mai?
«Ora, in sedia a rotelle, mi è difficile: ma rimane dentro di me, dentro di noi Bertolucci. E' l'origine di tutto, parte tutto da lì».
A Cannes l'anno scorso hai detto che forse un giorno non esisteranno più le sale, ma che i film non moriranno e magari nel futuro li vedremo proiettati sul volto di chi amiamo. Mi è sembrato un pensiero bellissimo: ma mi chiedo, quale film vorresti vedere negli occhi di tua moglie Clare?
«Vorrei vedere un film che non conoscevo e che mi ha fatto scoprire lei, «Le plaisir» di Max Ophuls. E' davvero straordinario: e Ophuls è certamente uno dei fratelli maggiori».
C'è un tuo film che più degli altri è uscito dagli schemi, che ti ha coinvolto maggiormente anche a livello personale?
«Sicuramente “Ultimo tango a Parigi” ruppe tutte le regole: il film venne addirittura condannato al rogo e io, il produttore e Marlon Brando a due mesi di carcere con la condizionale. E solo perché feci un film dove un americano a Parigi fa l'amore con una ragazza usando del burro. Fu durissima: anche perché persi per 5 anni i diritti civili. E' impensabile ancora adesso che tutto questo sia accaduto per un cittadino appartenente a un Paese libero e democratico»
I tuoi padri artistici sono stati Pasolini e Godard: ma chi sono i tuoi figli?
«Figli? Mah, forse mi rendo conto guardando qualche film di altri che qua e là ci sono delle influenze, dei rimandi al mio cinema: ma in realtà me ne dimentico subito. Non ho questa sensazione di essere il maestro di qualcuno: forse (sorride, ndr) adesso dopo la laurea ad honorem le cose cambieranno».
C'è un film che avresti sempre voluto fare ma non sei riuscito?
«In realtà ci sono tanti film a cui ho rinunciato, ma non ne me ne viene in mente nessuno in particolare: forse perché nella mia carriera sono stato molto molto fortunato e molto determinato. Alla fine sono sempre riuscito a realizzare i film che volevo fare».
Ma il progetto sul musicista Gesualdo da Venosa lo hai definitivamente abbandonato?
«Sì, non coincide più col desiderio dei film che voglio fare. Il digitale ha cambiato le cose, ora c'è molto da scoprire».
E quindi a cosa stai pensando?
«Attualmente ad andare in vacanza...».
Nei tuoi film ci sono spesso sequenze di ballo: perché?
«Perché in quelle scene tutto è possibile: e anche perché non ho mai saputo ballare...».
Perché non hai mai diretto un'opera lirica, a differenza di tuo fratello Giuseppe? Non ti piacerebbe dirigerne una qui al Regio?
«Me l'hanno chiesto, me l'hanno domandato molte volte: ma io ho il terrore del teatro d'opera. Se la dirigerò sarà fuori dal Regio, magari ambienterò un'opera nella sala d'aspetto di una stazione».