Il buco e la ciambella: David Lynch, il regista dal cuore selvaggio
Ha avuto genio - e stile -, lui che ha passato una vita con la camicia abbottonata fino al colletto, anche nell'uscita di scena. Con quelle parole scolpite sui social dalla sua famiglia che dicono molto di quello che è stato e ancora è: «C'è un grande vuoto nel mondo ora che non è più con noi. Ma, come diceva lui, “guardate la ciambella e non il buco”». In fondo c'è il sole, «it's a beautiful day». Amen. Ma se davvero volete guardare la ciambella - e sarebbe ora di decidersi a farlo - vi trovereste davanti a una delle personalità più visionarie, urticanti e inclassificabili del cinema degli ultimi 50 anni, un autore mai rassicurante né conformista che ha destabilizzato il senso stesso della visione. Andate a rivedervi la scena dell'incidente di «Cuore selvaggio», il film al quale Bernardo Bertolucci consegnò riconoscente la Palma d'oro di Cannes. O i brutti tizi che battono le dita sul tavolo in «Mulholland Drive», uno dei film più seducenti di sempre. Ricordo la prima a Cannes, gli sguardi persi nel vuoto all'uscita. E la ragazza che aspettava il taxi accanto a me: «Non ho capito niente: ma è bellissimo». Ma penso anche a John Merrick, il protagonista umano troppo umano di «Elephant Man», all'Isabella Rossellini, scandalosa e magnifica, di «Velluto Blu» e naturalmente a «Twin Peaks», che inventò il concetto moderno di serialità: per noi ventenni cresciuti con i quiz di Mike Bongiorno e i Sanremo di Baudo fu uno choc. Da cui, fortunatamente, non ci siamo mai ripresi. Non è mai stato banale: non nei film, né nelle scelte, né negli spot (uno anche per la Barilla con Depardieu) o nei video musicali. Ha insegnato a tutti senza pretendere da nessuno di essere seguito. Fai buon viaggio: chissà, forse almeno in Paradiso si può ancora fumare.
Tornatore racconta Morricone: il genio che ha scritto la colonna sonora della nostra vita
Ha ragione (anche stavolta, verrebbe da dire) Bernardo Bertolucci: «Non ho mai visto un fenomeno come lui». Già: lui che sognava di fare il medico ma il padre voleva suonasse la tromba, lui che la musica di «Se telefonando» gli è venuta in mente mentre andava a pagare la bolletta del gas, lui che un giorno chiama un amico (Alessandroni) e gli dice «vieni a farti sta fischiatina»: era «Per un pugno di dollari». Sì, proprio lui: che giocava (e vinceva...) a scacchi con Malick, ha detto no (a malincuore) a Kubrick e ad «Arancia meccanica», ma ha pure inventato il formidabile «A A» iniziale di una hit balneare (e immortale) come «Abbronzatissima». E adesso, per favore, tutti in piedi: standing ovation per il maestro Morricone. «La grande eccezione a tutte le regole» (parola di Nicola Piovani), il cui genio travolgente ma umanissimo rivive ora nell'entusiasmante documentario-tributo di Giuseppe Tornatore. Che dentro a «Ennio» mette la storia (e che storia!) del cinema, ma anche la confessione a cuore aperto e groppo in gola di un uomo che, fondamentalmente, capiva un film meglio e prima del regista che lo girava. Montato benissimo, con senso orchestrale (e ritmo musicale), sin dal prologo, assai efficace, senza note ma scandito solo dal tic tac del metronomo, quello di Tornatore è l'omaggio sentito, partecipe e rivelatore all'uomo che, provocando uno choc culturale, ha riscritto il vocabolario della musica, ma che prima dell'approvazione del regista cercava sempre quella della moglie. Dagli arrangiamenti per il Quartetto Cetra a quelli per «Sapore di sale» e «In ginocchio da te», dal verso del coyote per l'amico Leone al tema di «Novecento» - più verdiano di Verdi - scritto al buio, dalle notti passate a suonare con il padre nei locali per due soldi alla colonna sonora spartiacque di «Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto»: un flusso continuo di ricordi che Tornatore tesse in una ragnatela sentimentale dove le voci dei più grandi (Bertolucci, Eastwood, Tarantino, Springsteen e molti altri), raccolte con pazienza certosina in questi anni, si fondono con quella del maestro scomparso nel 2020. Protagonista e coro di un'opera che non nasconde la delusione per l'Oscar assurdamente negato a «Mission» né il complesso di inferiorità di Morricone verso i musicisti «puri» e accademici che lo snobbarono per decenni facendolo sentire moralmente «colpevole». Ma che racconta anche il riscatto di un compositore senza uguali, capace di fondere insieme la prosa e la poesia, sperimentale e insieme logico, istintivo e preparatissimo: lo stesso che, in un documentario che a tratti sa essere struggente come le sue colonne sonore, Tarantino oggi accosta a Mozart e a Bach. Il paragone a freddo, forse, vi sembrerà esagerato: ma, dopo avere visto «Ennio», di certo non blasfemo.
Proxima, Eva Green mamma astronauta
È tutto proteso verso quel momento, tende sempre e solo a quel punto: la partenza. Ma sa benissimo che la parte difficile è un'altra, il ritorno: «Quando vedi che le persone stanno bene anche senza di te». È una space opera con i piedi per terra, la preparazione di un viaggio esaltante ma allo stesso tempo doloroso, «Proxima»: e, più di tutto, un film antieroico, ma concreto e fisico (come un abbraccio: o come la parete di vetro che lo impedisce), sul distacco e sulla separazione. Sì, perché quelli che mandiamo lassù, per aspera ad astra, non sono solo «uomini veri»: ma donne, madri. Costrette a imparare ad accettare di essere imperfette, umane: ma pur sempre incapaci di dimenticare che una promessa è una promessa. E' un cinema molto femminile (non a caso è la sceneggiatrice di «Mustang») quello della francese Alice Winocour, pieno di increspate sensibilità, che accoglie un punto di vista inedito in un genere (quello degli astronauti) qui declinato al realismo, a suggestioni (ed emozioni) - forse anche perché è stato girato in una vera base spaziale - non artefatte, ma naturali, «quotidiane». La storia di Sarah (Eva Green, l'ex dreamer lanciata da Bertolucci), che sin da bambina sognava lo spazio: ora ha la possibilità di partire per una missione internazionale, ma questo significherà non vedere più per diverso tempo la piccola Stella... Immerso in una luce fredda, puntellato dalle note di Sakamoto, «Proxima» fa del «partire è un po' morire» l'incontro tra il molto grande - l'immensità dello spazio profondo che attende la protagonista - e l'universalmente piccolo - l'intimissima dolcezza di una donna che lava i capelli a sua figlia nella vasca da bagno -, svuotando l'epica per mostrare piuttosto la vulnerabilità dei suoi personaggi, tra inevitabile guerra dei sessi, senso di colpa e comprensione. L'addestramento durissimo, la simulazione, la preparazione di chi deve abituarsi a vivere al contrario per andare là dove le stagioni non esistono e le lacrime non scendono più. E il sole tramonta 16 volte al giorno: e chissà se qualcuno gli racconta una storia prima di addormentarsi. Dove nemmeno il peso ha più un significato: ma gli affetti e i legami ancora sì.
C'è tempo: il cacciatore di arcobaleni e Dalcò Olmo in viaggio verso Parma
E' l'incontro tenero tra due orfani, il cacciatore di arcobaleni e il bambino che non ne ha mai visto uno, il grassone che non va mai al cinema e il piccoletto che ama Truffaut: una favola tenera per eroi quotidiani, uomini e bambini soli che non amano la solitudine e invece di essere inutili Superman si accontenterebbero di salire in piedi su un tavolo per sentirsi un po', un giorno o per sempre, Olmo Dalcò. Anzi, Dalcò Olmo. E' pieno di affetto e di dichiarazioni d'amore – oltre che di decine e decine di citazioni cinematografiche (oltre 50 quelle dichiarate...) – il film che Walter Veltroni (il suo primo di finzione dopo 5 documentari) ha girato (anche) a Parma e dintorni: una commedia on the road affamata di speranza (che forse è l'unica - e l'ultima – rivoluzione possibile) e, in questi tempi bui, di luce, che racconta la bellezza dell'incontro guardando a <Il sorpasso> per finire col rendere omaggio ai luoghi e allo spirito di Bernardo Bertolucci. Nell'Italia ancora traumatizzata dal gol annullato a Turone, dove un sindaco fa tornare il sole grazie a <Topolino> e qualcuno, grazie a Dio, si chiede ancora di cosa è fatto il vento, la storia di Stefano, irrisolto studioso di arcobaleni, che scopre di avere un fratello tredicenne: di cui ora deve prendersi cura. Per i due comincia così un viaggio in Italia: a bordo di un vecchio Maggiolino cabrio targato <Pr>... Delicato e ironico percorso di formazione, tragitto sentimentale che Stefano Fresi (finalmente protagonista), Simona Molinari (gran bella sorpresa) e i giovanissimi (e giusti) Giovanni Fuoco e Francesca Zezza nutrono con dolcezza e sensibilità, <C'è tempo> (che ruba il titolo a una canzone di Fossati) si mette in marcia verso la scoperta e l'accettazione di sé. Non tutto è a fuoco: un paio di sequenze sono poco centrate (quella dal giudice, soprattutto, la lite in piazza Duomo) e a tratti il film si fa didascalico, ma Veltroni cavalca l'arcobaleno (metafora forte della ricchezza della diversità) per uscire da un labirinto <politico> ed esistenziale. Perché, oggi come oggi, il sorriso, la complicità e l'accoglienza sono i soli antidoti alla paura.
Bertolucci, i sogni e la nostalgia dell’imperatore
Non sembrava preoccuparlo il destino del cinema, così come lo conosciamo: forse perché sapeva, in cuor suo, che qualcuno - come lui - i film, in qualche maniera, avrebbe sempre continuato a farli. E ci sarebbe sempre stato qualcuno che - come noi - avrebbe avuto voglia di vederli. «Non ho idea di cosa ci riserva il futuro - mi disse una volta -, forse un giorno le sale non esisteranno più: ma sono convinto che i film non moriranno. Magari li vedremo proiettati sul volto di chi amiamo». Qualcuno ieri ha scritto che Bernardo Bertolucci ci ha lasciati. Non sono d’accordo: credo piuttosto che, semplicemente, se ne sia andato. Ma ho la presunzione di credere che non ci lascerà mai. Non ci lasceranno i suoi film, le sue visioni, il suo modo, unico di impressionare la pellicola. Né ci abbandonerà la capacità di emozionarci nel rivedere Brando morire o la Sanda e la Sandrelli ballare. L’ho capito l’altro giorno, a Torino, durante il festival del cinema: guardando «Pretenders», l'ultimo film di James Franco, divo cinephile, uno a cui fanno la posta ragazzine che forse non hanno mai nemmeno visto un film di Bertolucci. Che però l'attore e regista hollywoodiano nel suo film cita in continuazione, così come Godard e Truffaut: giganti di quel cinema anni '60 che del cinema stesso cambiarono la morfologia, la grammatica, la sintassi. Il ragazzino di Baccanelli cresciuto ascoltando il padre Attilio dettare al telefono, a braccio, le recensioni alla «Gazzetta» scrittura gli amici di infanzia per «rifare» i film che ha appena visto: nella Parma che, faticosamente, semina sogni là dove poco prima c'erano le macerie della guerra, la campagna assomiglia a un enorme set. Scrive poesie, riceve premi, ma sceglie presto, ancora giovanissimo, il cinema. Forse perché ha già capito che è quel posto dove se «chiedi un treno te lo portano davvero». Nello sguardo del bimbo che si nasconde per vedere il maiale morire - il suo, primo, folgorante cortometraggio - c'è già la promessa di qualcosa di grande, la scoperta, violenta di uno stupore che forse è il medesimo di quello di un altro bambino, migliaia di chilometri e molti anni più in là, davanti a cui tutti si inginocchiano nella città proibita. Prima però c'è tempo di scambiare Pasolini per un ladro: gli chiude la porta in faccia, ma lui non se la prende. «Dici che ti piace il cinema, fammi da aiuto regista». Sul set, Bertolucci arriva dalla porta principale: iil film è «Accattone». da lì in poi si fa sul serio: c'è l'esordio con «La commare secca», solo apparentemente pasoliniano ma che in realtà già si distacca dall'amico-maestro. E' con «Prima della rivoluzione», girato a Parma, però che Bernardo diventa Bertolucci. Ha solo 22 anni, è sfrontato e incosciente al limite dell'arroganza e soprattutto incompreso: i critici italiani - che non ne comprendono il già limpidissimo talento - lo stroncano, i francesi però lo esaltano. Ancora oggi resta uno dei film più belli di sempre sul tormento di essere giovani: capace di parlare ai ragazzi di oggi con la stessa modernità con cui si rivolse a quelli di mezzo secolo fa. C'è chi lo consiglia di rimettersi seduto: lui invece insiste. E firma capolavori, personali e politici, come «Il conformista» e «Strategia del ragno». Per poi girare il film che cambia tutto, «Ultimo tango»: l'anteprima a Parma è per pochi, la saracinesca del cinema abbassata, il fumo di decine di sigarette che rendono quasi nebbiosa la fotografia di Storaro. «Ruppe tutte le regole», ricordò il maestro l'ultima volta che venne a Parma: il rogo, la condanna al carcere (con la condizionale), la privazione per 5 anni (che follia...) dei diritti civili. Più scandalosa la sentenza che non il film. Ma poco importa: il successo è globale, pazzesco. Solo in Italia lo vanno a vedere 15 milioni di persone: per capirci «Titanic» non è arrivato a 9... E' il momento che Bertolucci può tutto: lo stesso in cui decide di girare l'epopea padana e indimenticabile di «Novecento». Lo sguardo si fa epico, la storia privata diventa quella collettiva, comune. Si capisce già allora - mentre nella piccola capitale arrivano De Niro, Depardieu e Burt Lancaster - che Parma non potrà essere il suo ultimo approdo. L'orizzonte si allarga, le mete sono la Cina, il deserto, l'America. Arriva l'Oscar (unico italiano a vincere quello per il miglior film), ma Bernardo continua a ballare ostinatamente da solo: il suo cinema non ha paragoni, ha padri (rinnegati e non), ma non ha figli. E' rimasto sino all'ultimo il dreamer, il sognatore, degli inizi: cinefilo borghese e ribelle più forte persino della malattia che lo aveva confinato su una sedia a rotelle. Capace di rinchiudersi in una cantina per sparare Bowie tradotto da Mogol a tutto volume. Continuava a parlare del futuro, Bertolucci, a pensare a un altro film, a una nuova avventura: era l'ultimo maestro, ma il primo nella fila degli entusiasti. Un uomo capace di gesti e gentilezze imprevedibili: come quella volta che mi chiamò al telefono per ringraziarmi per quello che avevo scritto su sua madre, rosa bianca che aveva piegato, per sempre, il suo gambo. Diceva: «Il cinema è la nostalgia per qualcosa che non abbiamo mai vissuto». Buon viaggio, imperatore.