Il gioco delle coppie: l'amore al tempo degli e-book
<E' un po' come in "Luci d'inverno" di Bergman: il prete continua a dire messa anche se la chiesa è vuota>. Leggere? Forse è ormai è solo una questione di fede... Ma mai come questa volta, perlomeno, il dibattito è aperto: merito dell'attualissimo film-saggio di Olivier Assayas che ne <Il gioco delle coppie> (brutto titolo che restituisce poco dell'originale <Doubles vies>) riflette a voce alta sulla rivoluzione digitale: la vita al tempo degli e-book, tra vita reale o solo percepita, scontri generazionali, il ruolo dei critici e quello degli algoritmi. Un film denso e scritto benissimo, costruito su una fitta serie di dialoghi e incontri, dove il regista di <Sils Maria> incrocia abilmente l'analisi (preoccupata e preoccupante) di un cambiamento epocale con un girotondo sentimentale che si rivela spesso anche molto divertente. I limiti della scrittura, che il cuore forse non conosce: chi vuole l'arte gratis, chi solo un'altra donna.
Nella storia del responsabile di una casa editrice alle prese con le difficoltà sempre più crescenti del mercato dei libri, Assayas, con la corale complicità di un gruppo di interpreti affiatati (tra Canet e la Binoche, è il buffo Macaigne quello che ne esce meglio), guarda alle conseguenze che le nuove tecnologie hanno avuto sulle nostre vite, prima che tutto cambi affinché ogni cosa rimanga uguale. Cinema intellettuale, radical chic, colto, borghese: ma felicemente immerso nella contemporaneità. E capace di (auto?) ironia.
Van Gogh, l'uomo che diceva "io sono i miei dipinti"
Aveva le scarpe rotte e le calze bucate e si lavava raramente: ma davanti a un paesaggio piatto sapeva riconoscere l'eternità. Il cinema mette nuovamente in cornice (nei quattro angoli di una tela-schermo) Vincent Van Gogh, l'uomo che diceva <io sono i miei dipinti>. E nel cercare di vedere quello che gli altri non vedono (non è forse anche la missione del regista?) rivive ancora in un film, inseguendo un'idea che duri per sempre. A costo di pagare il talento con l'emarginazione, di scontare la <maledizione> del suo genio con l'incomprensione. Rassegnato ma consapevole che - come un Cristo in croce - solo più avanti sarebbe stato davvero capito.
Al riparo dalle pozzanghere scivolose del biopic più tradizionale, <Van Gogh-sulla soglia dell’eternità> cerca, con macchina a mano, primissimi piani e un montaggio a tratti febbrile, l'uomo prima del mito: non sfugge il mood un po' modaiolo dell'operazione, ma il film del regista pittore Julian Schnabel - sulla carta rischioso -, non esce comunque sconfitto dal pregiudizio.
Puntuale in alcuni dettagli, il film si prende per altri versi delle libertà dalla storia ufficiale: negando ad esempio che il grande pittore (l’arma, in effetti, non fu mai ritrovata) si sia suicidato. Ma più che attenersi con precisione alla vita documentata di Van Gogh, a Schnabel (che aveva già cantato le gesta di Basquiat) interessa riflettere sul significato dell’essere artista, sul tormento che scava in una dimensione interiore difficile, praticamente impossibile - se non attraverso le proprie opere - da comunicare all’esterno: sulla sofferenza (e sulla solitudine) insita nel genio, ma anche sulla sua capacità di avvicinarsi alla luce. Una tensione emotiva, un approccio ideale, a cui dà corpo, con un’interpretazione dolorosa, uno scavato Willem Dafoe, che dopo la Coppa Volpi vinta a Venezia e la candidatura al Golden Globe sta rincorrendo (32 anni dopo <Platoon>) la quarta nomination all’Oscar.
La donna elettrica, doppia vita di un’eroina ambientalista
E' un film differente, questo: che già di per sé è un motivo valido per prestargli attenzione. Differente per provenienza (avete visto molti film islandesi quest'anno?), per ambientazione (mai scontata), ma soprattutto per la forza morale e ideologica, il legame con la Terra viva e il doppio fondo di un'inaspettata eroina di mezza età, cordiale maestra di cori specialista in azioni di sabotaggio.
Una come Halla (Halldóra Geirharðsdóttir, molto molto brava), le foto di Gandhi e Mandela alle pareti, nessun marito, poche frequentazioni e una perfetta – e assai movimentata - vita segreta: è lei infatti l'ecoterrorista a cui il governo sta dando, invano, la caccia da mesi, autrice di alcune azioni clamorose contro le multinazionali che stanno attentando al benessere del suo splendido Paese. Un giorno però scopre che la sua vecchia richiesta di adozione è stata accettata: un'orfana ucraina di 4 anni la sta aspettando...
Originale per concezione e impianto narrativo (per nulla parco di sorprese), <La donna elettrica> (non un granché, a dire il vero, il titolo italiano) fonde l'apologo ambientalista con la commedia più paradossale, il ritratto di signora con un convincente (anche se non prioritario) intreccio thriller, i dilemmi etici con le convinzioni più ferme: il tutto per dare voce, per mezzo di un registro che sfugge ai codici più riconoscibili e codificati, a un'idealista e moderna (e materna?) Robin Hood che dichiara guerra al sistema, combattendo la battaglia che il pianeta non può affrontare da solo.
Se il rapporto simbiotico con la natura (madre come e più della protagonista) è prevalente, molto altro funziona in questo oggetto curioso: dai ripetuti inserti surreali (la band vintage e il trio ucraino in abiti tradizionali spesso in scena, sfondi in movimento che dettano non solo i tempi musicali) ai numerosi spunti ironici, dalla regia pulita (di Benedikt Erlingsson) alle spigolature (il primo sospettato? E' sempre uno straniero...) politiche. Fino al finale, bello e rocambolesco, a sorpresa: quando una bambina in braccio a cui va restituito il sorriso diventa l'unica speranza nel mondo che si ribella.
Un anno di cinema: i 10 film più belli del 2018
Ci risiamo: tempo di classifiche. A chi la palma di miglior film del 2018? Dura, durissima anche quest’anno: ecco la nostra top ten, tra scelte sofferte e altre, ovviamente, opinabilissime.
10. UN AFFARE DI FAMIGLIA
Famiglia disfunzionale, sentimenti autentici: ma la lettura è scomoda, stratificata, il racconto moralmente complesso, le sfumature sono migliaia. Un cortocircuito etico nel Giappone in crisi, tra molti segreti e altrettante ambiguità. Dalla parte di rifiutati, là dove la maschera è più vera del volti.
9. CORPO E ANIMA
Sì, vero: per metterci questo ho rinunciato a molti altri che mi sono piaciuti assai. Ma qui siamo in un territorio inesplorato, all’incontro tra due prodotti difettosi che difficilmente superano il severo controllo di qualità della vita. Un film singolare e coraggioso dove l’amore è un mistero: in cui si sogna lo stesso sogno.
8. L’ISOLA DEI CANI
Una roba così poteva farla solo lui, Wes Anderson: perdere due anni dietro a dei pupazzi, scegliere una discarica come ambientazione principale e fare di un’epica avventura canina per metà in giapponese e graficamente stupenda il suo film più politico. Perché politico è il messaggio, ma anche il modo.
7. FOXTROT
Un film inquieto e senza pace , un apologo dissonante e feroce, girato con una cifra stilistica che si segnala per coraggio e originalità; un dramma paradossale sul lutto, il caso, la fede, l'assurdità della guerra: e il senso di colpa, orco invincibile e inseparabile. Un’opera potente e spiazzante.
6. DOGMAN
Er Canaro versione Garrone: che mostra i denti dell’abisso in un gran film chiuso in gabbia, un cupo e straordinario spaccato esistenziale violentato dai rumori di fondo di una realtà che non ha (e non dà) pace. Su tutto il volto di Marcello Fonte, superbo protagonista di un film scritto sulla sua faccia.
5. VISAGES VILLAGES
Un film generoso, disinteressato, pieno di improvvisa (e a volte imprevedibile) umanità: un anti depressivo naturale. Il fotografo hipster 35enne che non toglie mai gli occhiali da sole e la regista 90enne coi capelli bicolori sono la coppia più bella dell’anno. In un doc pieno di grazia, che a vederlo ti fa star meglio.
4. MEKTOUB, MY LOVE: CANTO UNO
Non c’è stato film nel 2018 così pieno di vita, energia contagiosa, sensualità, capacità di sedurre ed empatia come quello di Kechiche: che celebra la forza indomabile e inesauribile della giovinezza con un vibrante romanzo di formazione il cui cuore batte al ritmo di quellodi tous le garcons et les filles de mon age.
3. ROMA
La magnifica epopea intimista di Cuaròn che dice grazie alle donne della sua vita, unite dalla stessa solitudine: sua madre e la sua tata. Un film struggente, pieno di sentimento, di un'amarezza che però non sovrasta la speranza. Ispirato sin dal prologo: e con molte sequenze belle e crudeli.
2. COLD WAR
Un amore impossibile in un’epoca impossibile: in bianco e nero e 4/3, uno straordinario e commovente melodramma, girato con magnifica eleganza, grande ispirazione nella composizione dell'inquadratura, inusuale e toccante partecipazione. Il regista è una sicurezza, la Kulig una grande sorpresa.
1. TRE MANIFESTI A EBBING, MISSOURI
Una scelta forse un po’ mainstream, ok: ma trovatelo un film scritto così bene, che sia feroce, dolorosissimo e allo stesso ironico, sarcastico. Con interpteti fantastici e un regista che fa recitare bene anche i sassi. Un dramma furente là dove rabbia genera rabbia: un apologo politicamente scorretto. Come piace a noi.
Santiago, Italia: Moretti, “io non sono imparziale”
<Io non sono imparziale>.
Fossi nel cinema italiano (e nella Sinistra, ammesso che ne esista ancora una), io uno come Nanni Moretti me lo terrei stretto. Perché l'uomo potrà non piacere a tutti, ma il regista, l'intellettuale, è uno dei pochi disposti ancora a posare la sua cinepresa su quei fatti che la Storia non ha voglia di raccontare: uno dei pochi che non hanno paura di schierarsi, di prendere posizione, di scavare un solco, di difendere un'identità, un sentimento, di fare scudo, se necessario, a un'idea. In quel suo non tirarsi indietro, ma anzi nel fare un passo avanti senza chiedersi se si troverà o meno solo, c'è molto della forza di un film semplice, a tratti addirittura scoperto, eppure alto e attualissimo: un documentario secco ed esemplare che si volta indietro, allargando lo sguardo nelle crepe del passato per smascherare e metterci di fronte alle miserie del presente.
Rievoca il Cile del '73, del golpe militare atroce e vergognoso, ma parla soprattutto di noi, di quello che siamo stati e non siamo più, <Santiago, Italia>, il film con cui l'autore di <Mia madre> e <Habemus Papam> ci restituisce, non senza nostalgia, un'Italia solidale che si è smarrita nel tempo, incapace allora di voltarsi dall'altra parte, di fare finta di niente, ma al contrario pronta ad accogliere e integrare. L'unico Paese in Europa che si rifiutò di legittimare la dittatura di Pinochet: lo stesso che ospitò e aiutò a espatriare (fondamentale in questo senso l'operato del diplomatico parmigiano Roberto Toscano) i molti cileni che riuscirono a superare il muro (fortunatamente basso) della nostra ambasciata.
Alternati filmati d'epoca, documenti storici (potente, ancora oggi, l'ultimo messaggio di Allende), alle testimonianze di chi c'era, <Santiago, Italia> fa scaturire dalle parole, dai ricordi e dalle cicatrici immagini potenti (l'aguzzina che chiede alla prigioniera torturata di insegnarle a fare la maglia, la Croce Rossa che lancia ai detenuti caramelle come fossero scimmie...), elaborando l'anatomia di un omicidio: quello della democrazia. Andando oltre però l'orrore di quei giorni - e la commozione di adesso che si affaccia improvvisa e buca lo schermo, rigandolo di lacrime -, per riflettere sulla condizione (<scappavano dal Cile come scappano oggi dall'Africa>) di rifugiato: e sul dovere civile e morale di salvare chi chiede aiuto. Qualcosa che nel '73 a molti sembrò ovvio: ma che 45 anni dopo, un Paese smarrito nell'individualismo, cinico e indifferente, fatica a comprendere.