Nano Nano, Robin
Cercavano un tizio per un paio di puntate di «Happy days», sì proprio quello con Fonzie e Richie Cunningham: serviva uno bello strambo per interpretare il ruolo di uno stralunato venuto dallo spazio, «Mork from Ork». Al provino, quando il produttore Garry Marshall gli disse di sedersi lui non ci pensò su due volte: e sulla sedia mise la testa. «Lo assunsi subito - disse poi Marshall -: era l'unico alieno che si era presentato all'audizione». Ecco, noi che siamo cresciuti con «Mork e Mindy», Robin Williams lo adoravamo per questo: perché nel mare del conformismo democristiano-reaganiano dei nostri anni '80 lui era davvero un alieno, un extraterrestre, uno venuto da un altro mondo, straniero alla televisione (e poi al cinema) di allora e anche a se stesso. Non tanto uno di noi: ma quello che avremmo voluto essere. Una dirompente bomba a mano sganciata nella normalità più rassicurante: lui che aveva visto morire l'amico John Belushi (un altro geniaccio di rottura), lui che si capiva subito che andava sempre e solo in quinta. Adesso, pensando al suo tormento, si dirà che è il sorriso triste del clown, la faccia mesta che sta sotto la maschera del pagliaccio. Tutto vero. E' una legge inesorabile. Ma chi nasce comico non muore mai tale: magari si butta in politica e perde le elezioni, oppure finisce male o ancora cerca disperatamente di farsi prendere sul serio come attore drammatico mentre tutti gli chiedono di ripetere solo e soltanto i vecchi tormentoni. Ma Williams no: era diverso. «The funniest man alive» (come lo votarono nel '97 i lettori della rivista Entertainment Weekly, che lo inserirono anche tra i 50 migliori attori di sempre) era molto più di uno che sapeva come strappare una risata. I grandi della New Hollywood, come Altman, Mazursky o George Roy Hill, lo avevano capito subito: ma i film per trascinarlo fuori dal «Mork chiama Ork» che l'aveva reso una celebrità furono tutti un fiasco. Ci volle un microfono: e un regista - classicone ma bravo - come Levinson per farne una star anche del grande schermo. Libero di improvvisare - come nella sit com che l'aveva reso famoso - Williams urla il suo indimenticabile «Good morning Vietman!» e guadagna la prima, meritatissima, nomination. E' qui, a 36 anni, che l'ex ragazzo di Frisco comincia la sua second life. Lo prendono sul serio: e fanno bene. Due anni dopo Peter Weir gli permette di salire in cattedra, regalandogli un ruolo-mito per un'intera generazione: è lui il «capitano mio capitano» (ieri twittato anche da Franco Baresi, uno che capitano lo è stato sul serio...) de «L'attimo fuggente». Da lì è una corsa in discesa: «Risvegli», «La leggenda del re pescatore», il Peter Pan cresciutello di «Hook». E la voce (perché le voci Williams le sapeva fare tiutte...) del genio di «Aladdin». E' un divo da top ten, ma è vestendosi da donna, nell'ultra familista «Mrs Doubtfire», che il successo diventa planetario, imbarazzante: il film, costato 25 milioni di dollari, ne incassa più di 440. Un'apoteosi che però finisce per limitarlo: gli anni passano e da protagonista si ritrova più spesso spalla. Magari per incursioni esilaranti (il ginecologo di «Nine months»: o per vincere l'Oscar (l'unico) con tanto di barba socratica in «Genio ribelle», dove dà buoni consigli a un giovane Matt Damon. Il terzo millennio però è avaro di soddisfazioni: l'ultimo suo vero grande film è «Insomnia» di Nolan, di 12 anni fa, dove è uno splendido cattivo che lotta sui tronchi galleggianti con Al Pacino. Il resto è dimenticabile, anche se il pubblico lo continua ad amare grazie alla saga di «Una notte al museo». Ma non basta una risata a sconfiggere il male oscuro, non c'è scherzo che possa salvarlo dalla depressione. Finisce così, nel modo peggiore: Nano Nano, Robin. Ti meriti un pianeta migliore di questo.