Non parliamo di tragedia, per favore. Che le tragedie sono altre: e per quanto amarissimo - e miserabile - sia il contesto, pure sempre di una partita, di un gioco e di un pallone che rotola, si tratta. Ma è indubbio che la disfatta dell'Italia calciofila sia lo specchio (o la metafora, se preferite) dello sfascio di un Paese stanco, un po' codardo e improvvisato, dove, al di là della consueta abitudine di affidarsi all'italico stellone, si pretende di trionfare armati per lo più di approssimazione, ignoranza, mancanza di preparazione. Un Paese che fischia l'inno degli avversari dimenticandosi che non sono i nemici della patria, ma 11 ragazzi come i nostri, solo più organizzati, più decisi e più fortunati di loro. Un Paese dove non si dimette nessuno, neppure per scherzo: men che meno chi sbaglia, chi dimostra di non essere stato (mai e tanto meno quando più contava) all'altezza. Un Paese che si affida a scelte al ribasso - vedi quella dell'allampadato (S)Ventura -, che soffre e perde contro una squadra mediocre, che promette e non mantiene. Ha ragione Gigi Buffon, il portierone partito da Parma: è un fallimento sociale. L'Italia costretta a seguire i mondiali in tv, mentre in Russia giocheranno per la Coppa Panama e Iran, è la stessa che ha eletto a capo dell'istituzione calcio un signore come Tavecchio (non vi sfuggirà la facile rima con stravecchio...), noto più che per le brillanti idee, per le battute su ebrei e omosessuali nonché per alcune proposte - come la lap dance negli stadi - piuttosto bizzarre. L'Italia che non schiera - se non per pochi minuti quando i buoi sono già scappati - i suoi uomini più in forma (da Insigne a El Shaarawy) è la stessa che non ha alcun riguardo per i suoi giovani, che lascia marcire le teste migliori di una generazione nel pantano del precariato, che fa fuggire i cervelli all'estero per la disperazione e coccola invece i bamboccioni che magari campano affittando la casa di nonna a chiunque (basta che paghi), senza badare alla fedina penale del nuovo inquilino. In quel triplice fischio finale in un San Siro ormai ammutolito c'è un fallimento di prospettive, di opportunità, di visione. C'è un'Italia in confusione, che scommette sulle persone sbagliate, sconfessata dai suoi stessi campioni (virale ormai la reazione di De Rossi: «Cosa entro a fare? Metti un attaccante!», ha urlato a chi gli chiedeva di scaldarsi...), litigiosa, disunita, spaventata. Un'Italia dove più di un elettore su quattro è pronto a votare per un premier che non distingue il Cile dal Venezuela e litiga costantemente con il congiuntivo. La stessa Italia per la quale è sempre tutta colpa dei politici, degli stranieri, di qualcun altro: perché, da sempre, si trova più facilmente la pagliuzza nell'occhio del vicino piuttosto che accorgersi della trave nel proprio. Ha ragione Tania Cagnotto, una che di allori ne ha raccolti tanti, forse perché nella vita si è sempre tuffata: «Sapere perdere è fondamentale, dalle sconfitte si impara molto». Ecco: nell'anno zero del calcio azzurro, la debacle della nostra nazionale deve essere un monito per ricominciare da capo, per ritrovare, non solo sul campo da gioco, nuovi slanci, voglia di ripartire, maggiore serietà. Altrimenti non ci resterà che consolarci col campionato, che ricomincia sabato. Con le figurine di Anna Frank e i soliti cori razzisti.