Detroit, la Bigelow mette l’America faccia al muro
Si scrive <Detroit>, ma si legge Charlotte: e in mille altri modi. Perché l'America è così, un cerchio: si illude di cambiare, ma torna sempre al punto di partenza. Riflessioni a voce alta dopo un film bello sin da subito - con quel prologo animato -, e l'inizio, furioso come il resto, tutto macchina a mano, un crescendo di tensione, una lezione di montaggio. Chi si nasconde al calduccio del cinema più convenzionale non sarà d'accordo, ma se c'è una ragione per amare l'ultimo film dell'unica regista donna ad avere vinto l'Oscar, Kathryn Bigelow, sta proprio nella sua insofferenza all'omologazione, nel suo scegliere sempre (a rischio di giocarsi la benevolenza della massa) la strada più difficile. Tanto che per rievocare - ricordando con rabbia -, le sanguinose rivolte che sconvolsero la Detroit di 50 anni fa, l'autrice di <Strange days> non si appoggia alla stampella dei generi, evita il thriller come il film di denuncia, saltando invece da un personaggio all'altro, non dando mai (e qui sta la sua modernità) un vero punto di riferimento, un appiglio, anche morale (o semplicemente consolatorio), a chi guarda. Girando (benissimo), sulle note dolci e maledette di Coltrane e della Motown, un film traumatico, anti-retorico, brutale, sincopato, nervoso, amaro. Senza eroi e senza protagonisti (tranne una, la città), in una coralità che - anche quando chiusa tra quattro mura - permette di ampliare lo sguardo non solo ai fatti in sè (peraltro atroci) ma a un'intera società malata, affetta dall'odio, cresciuta nella violenza e assuefatta al razzismo, sadica e endemicamente incapace di essere corretta, pacifica, giusta.
Concitato, feroce, colmo fino all'orlo di paura e di follia, <Detroit> mette indietro le lancette di mezzo secolo trascinando lo spettatore prima in strada e poi all'interno dell'Algiers motel dove tre poliziotti uccisero a sangue freddo tre giovani afro-americani, pestandone e terrorizzandone diversi altri, oltre a due ragazze bianche, colpevoli di trovarsi nel posto sbagliato. Una notte infinita, lunga 50 anni, in cui si specchia un'America impunita: non c'è espiazione nel cinema in perenne movimento della Bigelow, né giudizio, né via di fuga. Ma zoom usati in senso ansiogeno, tagli stretti sui volti, foto e filmati d'epoca, fatti documentati o interpretati. In una narrazione frammentaria e mai indulgente, volutamente sconnessa: segno (e cicatrice) di un film che ti mette faccia al muro.