Tonya, l’ultimo trionfo della regina di ghiaccio
Se volete raccontare una storia, beh, raccontatela così: con questo spirito e queste facce. E questa voglia. Che in fondo la vita è come un'enorme pista di ghiaccio: per quanto cadi bene non sarà mai sul morbido. Un biopic non convenzionale, aggressivo, grottesco, scritto scorretto, girato disinvolto e montato energico: l'ultimo, tardivo, trionfo di Tonya Harding, la pattinatrice made in Usa protagonista di uno dei più grandi scandali nella storia dello sport mondiale, alla cui rocambolesca parabola l'australiano Craig Gillespie dedica ora un film cattivo e divertente, sempre molto sul pezzo, che dà del tu allo spettatore e non si fa mettere i piedi in testa da nessuno.
Sulle note di alcune delle più popolari hit degli anni '80-'90 (da <Romeo & Juliet> dei Dire Straits a <Gloria> di Tozzi nella versione di Laura Branigan), Gillespie guarda all'altra faccia del sogno americano rievocando, col necessario sarcasmo, la storia vera della prima americana capace di eseguire un triplo axel (una delle figure più complesse del pattinaggio artistico): diventata però famosa per ben altro. Cresciuta con una madre inaffettiva e insopportabile, accanita fumatrice che vanta un'invidiabile collezione di matrimoni naufragati, Tonya da bimba invece di giocare con le bambole spara ai conigli: ma coi pattini ai piedi, nonostante i più la considerino solo una bifolca, è un portento. Dalle botte di mamma passa rapidamente a quelle del marito: il suo stile anticonformista, più coraggioso che elegante, però sul ghiaccio comincia a pagare. Argento ai mondiali, prima ai campionati nazionali: fino al sogno di un'altra Olimpiade. Dove l'avversaria più accreditata è la compagna di squadra Nancy Kerrigan. Che poco prima dei giochi viene colpita alle gambe da uno sconosciuto: una maldestra e ignobile aggressione di cui vengono accusati Tonya e il marito...
Finto documentario in 4/3, voce off, personaggi che parlano dritto in macchina: spavaldo e senza remore, <Tonya> - forse uno degli ultimi film targati Mira max (l'assai vacillante casa di produzione fondata da Weinstein) - nel ritratto privo di sconti dell'eterna incompresa (nella vita come sulla pista) di un'America profonda incapace di assumersi le proprie responsabilità, indaga anche sull'ipocrisia piccolo borghese dell'istituzione sport, che non ama le bad girl ma solo le sorridenti e malleabili cenerentole che siano spot vivente di <una sana famiglia> a stelle e strisce. Secondo al Festival di Toronto solo al bellissimo <Tre manifesti a Ebbing, Missouri> (e davanti a <Chiamami col tuo nome> di Luca Guadagnino), il film di Gillespie arruola qualche idiota alla Coen, ma risplende, oltre che per l'approccio non convenzionale, per le strepitose interpretazioni di Margot Robbie (era la sex bomb di <The wolf of Wall Street>) e di quella baciata dall’Oscar di Allison Janney, migliore attrice non protagonista nel ruolo di una delle peggiori madri di sempre.