L’isola dei cani, il mondo salvato dai pupazzi
<Chi siamo noi? E chi vogliamo essere?>.
La poteva fare solo lui, una laurea in filosofia nel cassetto e molte improbabili cravatte nell'armadio, una cosa così: perdere due anni dietro a dei pupazzi, scegliere una discarica come ambientazione principale, omaggiare Hokusai e Saint-Exupéry (ma anche Kurosawa e Miyazaki) portando ai confini del visionario (un passo oltre <Fantastic Mr. Fox>) l'animazione in stop motion. E trasformare un'epica avventura canina per metà in giapponese nel suo film più politico. Ci voleva Wes Anderson, un regista che non ama le storie addomesticate, quelle che scodinzolano a comando, per concepire, nell'odierna società destrorsa costruita sull'esclusione, la riflessione pop e stilisticamente ricercatissima che affida a <L'isola dei cani>, fiaba per adulti dove il grande autore di <Moonrise kingdom> e <Grand Hotel Budapest> denuncia la sistematica manipolazione della verità da parte di un potere che sfrutta la propaganda per perseguitare le minoranze e gli indifesi.
Nell'immaginaria Megasaki, il sindaco ordina di deportare tutti i cani su un'isola-spazzatura: ma un ragazzino di 12 anni lo sfida andando alla ricerca, con l'aiuto di cinque simpatici pelosi, del suo amato Spots...
Orso d'argento per la migliore regia al Festival di Berlino (che ha inaugurato), Anderson, colta nella tenerissima storia d'amicizia tra il randagio a cui nessuno ha mai dato un biscotto e il piccolo orfano zoppo l'umanità degli animali e la cieca bestialità degli esseri umani, porta la sua celeste stravaganza nelle schiere degli emarginati, firmando un film graficamente bellissimo, molto ironico (divertente anche l'uso delle didascalie), sempre ispirato. Dove la complessità della forma esalta la geometria dell'inquadratura: perché politico non è solo il contenuto, ma anche il modo. Arigato, Wes.