Il cinema secondo Matteo: Dogman raccontato da Garrone
<Il mio canaro? Non è un mostro, ma una vittima>. Morde <Dogman>, e urla, sbava: è un noir metafisico e alienato, un apologo in gabbia rabbioso eppure colmo di pietas, uno spaccato umano che accarezza l'abisso, là da dove non si torna più indietro, il film che può riportare in Italia la Palma d'oro di Cannes. Una pellicola (già nelle nostre sale), chiusa, fisica, di grande forza evocativa - ispirata all'efferato omicidio compiuto alla Magliana nell'88 da Pietro De Negri, detto <er canaro> - che Matteo Garrone (due Grand Prix sulla Croisette con <Gomorra> e <Reality>) ha portato in concorso tra applausi e recensioni entusiastiche, prendendo le distanze dal brutale fatto di cronaca nera per farne invece <una vicenda che avrebbe potuto accadere a ognuno di noi: la violenza può contagiarti in qualsiasi momento e senza nemmeno accorgertene rischi di scivolare e rimanere incastrato nell'incubo di qualcun altro>.
<Dogman> ha avuto una lunga gestazione, non è vero?
<Sì, abbiamo iniziato a scriverlo 13 anni fa: ma nel corso degli anni siamo cambiati e con noi la storia. Uno dei primi punti di riferimento è stato "Le memorie del sottosuolo" di Dostoevskij. All'inizio il film si sarebbe dovuto chiamare "L'amico dell'uomo": lo proponemmo, per la parte del protagonista, anche a Benigni, che tra l'altro alla prima dell'altra sera era in sala. Ma mancava sempre qualcosa: e così abbiamo continuato a rimandare>.
Qual è stata la svolta?
<L'incontro con Marcello Fonte (l'attore principale, ex custode di un ex cinema occupato: semplicemente straordinario, ndr), che si è rivelato fondamentale: ci ha fatto allontanare dal fatto di cronaca dando alla storia una dimensione più umana. Ha chiarito a me e agli altri sceneggiatori quale fosse la direzione da prendere: la nostra è più una storia di giustizia che di vendetta, impersonata da un personaggio naif e contraddittorio che ha una sua innocenza e trasmette grande umanità e dolcezza. Marcello è un personaggio alla Buster Keaton, da cinema muto, porta al film una leggerezza importante, ci ha permesso di reinventare completamente la storia. Di andare oltre le torture per cui è famosa la vicenda del Canaro: non mi interessava raccontare il mite che si trasforma in mostro, non volevo fare un film come "Un borghese piccolo piccolo" o "Cane di paglia". Non c'è premeditazione qui: se c'è una violenza nel film è una violenza psicologica, non legata ad aspetti splatter>.
Nel film molto fa anche l'ambientazione, questa periferia degradata, selvaggia, da confine dell'impero: ci parla della location?
<E' il Villaggio Coppola di Castel Volturno: un posto che mi vuole bene, che mi è familiare. Ho già girato lì "L'imbalsamatore" e una parte di "Gomorra". La luce è magica, è sempre quella giusta. Mi ha permesso di richiamare l'idea di un luogo di frontiera, di fare del film una sorta di western, la metafora della società in cui viviamo>.
Come è stato lavorare con i cani?
<Bellissimo: perché non sai mai cosa fanno. E questa componente di imprevedibilità è molto stimolante anche per gli attori. Abbiamo cercato di creare grande complicità tra Marcello e quello che nel film era il suo cane: è finita che mangiavano insieme la pasta al pesto... Mi hanno detto che a Cannes c'è un premio anche per il cane più bravo, la Palm Dog: beh, datela al nostro Jack, se la merita>.
Qualcuno in <Dogman> legge anche un'allegoria dell'attuale situazione politica italiana: è d'accordo?
<Il protagonista del mio film vive certamente paure e contraddizioni molto moderne, vuole farsi volere bene da tutti: ma non avevo pensato che potesse rappresentare un Paese che si ribella alla politica che lo vessa. Il mio è un approccio più umanistico che politico: se quest'ultimo aspetto c'è, c'è mio malgrado>.