Per un pugno di film: 30 anni senza Sergio Leone
Il ragazzotto si chiama Sergio Leone ed è figlio d'arte: suo padre era un regista del muto, sua madre un'attrice. E' cresciuto sui set e si fa notare presto: qualcuno si accorge che la corsa delle bighe (è roba sua, in qualità di regista della seconda unità) è la sequenza più bella di «Ben Hur». Fino allora non lo conosce quasi nessuno, però: ha un solo film all'attivo, «Il colosso di Rodi», un peplum che gli viene buono per affrontare le spese del matrimonio. Ma poi gli propongono un western: e a lui non sembra una cattiva idea. Prende in prestito la trama da un film di Kurosawa («La sfida del samurai»), ci mette dentro un po' di tragedia greca, Shakespeare, persino la commedia dell'arte. E poi tempi lunghissimi, immagini dilatate: e primissimi piani, silenzi, battute laconiche. Che diventano presto massime: perché «quando un uomo con la pistola incontra un uomo col fucile, l'uomo con la pistola è un uomo morto». Lui le chiama «favole per adulti», il resto del mondo «spaghetti western»: mentre le gonne si cominciano ad accorciare e prima che l'immaginazione vada al potere, «Per un pugno di dollari» cambia la storia del cinema. E' roba forte, si capisce subito: nella visione etica di Leone non c'è più spazio per il «buono». Il «buono» nei suoi film è solo quello che estrae la pistola per primo. Nasce un eroe con una dimensione mitica e insieme politica: il regista romano non gli dà nemmeno un nome (quasi fosse un omerico «nessuno»), ma gli butta un poncho addosso. Serve una maschera, una faccia: in una serie tv trova un tizio che viene via per poco. E' un salutista (ma lui lo costringerà a fumare in continuazione) e, secondo Leone, ha solo due espressioni: «Una col cappello e una senza». Si chiama Clint Eastwood e gli sarà (nonostante quel giudizio frettoloso) riconoscente per sempre: tanto da dedicargli l'ultimo grande western, «Gli spietati».
La violenza non più nascosta, retaggio della grande lezione neorealista (Leone sosteneva, non a torto, che nei film americani la gente «moriva male», in campo lungo, troppo distante dagli occhi dello spettatore...), la straordinaria e inconfondibile musica di Ennio Morricone (che il regista sparava a tutto volume durante le sequenze per fare entrare gli interpreti nel personaggio), l'ironia caustica: sono tante le ragioni del successo degli «spaghetti». Ma sulle prime non fu facile imporsi: per i ruoli che andarono a Eastwood e a Gian Maria Volontè (altro grandissimo che partì da qui...), qualcuno gli propose Vianello e Tognazzi, pensando a una parodia. Germani, invece, il più grande esercente fiorentino, sentenziò: «E' un capolavoro, ma non farà una lira». Si sbagliava: «Per un pugno di dollari» diventa subito un fenomeno, oltre che uno dei maggiori incassi di sempre. L'anti Ford (in realtà amava molti dei suoi film) che invitava Ramon a mirare al cuore e che si faceva ancora chiamare Bob Robertson (figlio di Roberto Roberti, lo pseudonimo del padre), ce l'aveva fatta: aveva dato il via a qualcosa di più grande di lui. Nei 5 anni successivi al suo primo western escono in Italia, sull'onda di un'emulazione senza freni, 480 film «spaghetti», molti pessimi e altrettanti mediocri. Ma lui non sbaglia un colpo: prima la trilogia del dollaro poi quella sull'America. La scintilla diventa fuoco, poi incendio: a 30 anni dalla morte (che se l'è portato via troppo presto, a soli 60 anni) e a 55 dal primo duello, il pistolero col poncho è ancora più che mai archetipo, simbolo. E leggenda.