Beautiful boy: un padre e un figlio nell’inferno della droga

La dipendenza dalla droga contro quella dei sentimenti, degli affetti, di abbracci, inesorabilmente, spezzati. Quando tornare indietro sembra un viaggio troppo lungo e di quella mano tesa che si allunga nell'abisso credi ancora di potere fare a meno. E nemmeno lo chiami problema, anche se - come scopri prima dei titoli di coda - l'overdose in America è la prima causa di morte sotto i 50 anni.

Si muove tra rese e ricadute, salvezze estreme e buchi neri, <Beautiful boy>, il film doloroso e giustamente amaro con cui il belga Felix Van Groeningen approda a Hollywood dopo il successo di <Alabama Monroe> raccontando un'altra famiglia a pezzi, nella storia vera e per nulla <stupefacente> - ma purtroppo ordinaria, comune - di Nic Sheff, ragazzo modello che imbocca il tunnel della tossicodipendenza. Il padre fa di tutto per farlo smettere: ma ogni volta il richiamo, la sirena, delle sostanze sembra più forte, più invincibile...

Rapporto autentico e sofferto tra un genitore costretto ad accettare il proprio fallimento e un figlio che deve trovare dentro di sè l'uscita d'emergenza dall'inferno, <Beautiful boy>  rilegge i due best seller (di Nic Sheff e di suo padre David) a cui si ispira affrontando il potere distruttivo della droga (<rimedio> mortale per <attenuare la stupidità della realtà quotidiana>...)  procedendo per ellissi, flashback, corsi e ricorsi. E' l'efficace struttura narrativa di un film in realtà un po' predicatorio e  convenzionale, capace però di riscattare quell'inevitabile sapore di già visto con le interpretazioni, perfette per misura e intensità, di Steve Carell e Timothée Chalamet. 

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