Downton abbey: gli INGLESI fanno sul serial
Attenti agli inglesi: fanno sul serial. E a costo di andare controcorrente, là dove la regola (o l'abitudine) vuole che i grandi film si trasformino in fortunate serie tv – da <Gomorra> a <Mash> gli esempi si sprecano – imboccano il percorso inverso, portando uno dei gioielli della corona, l'acclamata <Downton Abbey>, dal piccolo schermo su quello grande. Un'operazione (che ha in sé i germi di una nuova serialità: si starebbe già infatti pensando al sequel...) che pur suscitando qualche perplessità si è rivelata (il film ha incassato 8 volte quanto è costato) decisamente redditizia.
Lucidata l’argenteria, <Downton Abbey>, si mette in ghingheri, cominciando lì dove la serie terminava: nel 1927, quando la tenuta dei Crawley va letteralmente in subbuglio per l’imminente visita di re Giorgio V... Film corale sorretto da interpreti di gran classe (gli stessi della versione televisiva, guidati da una splendida, acida, Maggie Smith che si dispiace che Machiavelli sia <spesso sottovalutato>...), d’ambiente, d’atmosfera e di spirito molto british, <Downton Abbey>, diretto dal navigato (ma solo in campo televisivo) Michael Engler, seppur consapevole che “il sarcasmo è la forma di arguzia più vile”, fa la punta ai dialoghi e, ancora una volta, scatena la lotta di classe tra servitori che non ne vogliono servire altri e aristocratici che tramano per le successioni ma nel frattempo sono occupati a riparare il tetto. Il riferimento più ovvio è <Gosford Park> di Altman, ma si resta lontani: perché se è vero che c’è da divertirsi, il film, a rischio di scontentare i veri fan della serie, dopo una prima parte ricca di schermaglie apre nella seconda a un buonismo consolatorio sin troppo marcato: scordandosi di servire, insieme al dessert, anche qualche goccia di veleno.