Martin eden, l’idea di un cinema differente
C’è un’idea di cinema differente, sfidante e antiretorica, complessa e rischiosa anche in quella scelta stilistica - qui fondante, angolare - di mescolare fiction e materiale di repertorio, bianco/nero d’epoca e finto documentario, in «Martin Eden»: di cui bisogna apprezzare non solo l’originalità della concezione, ma anche il coraggio senza rete di un’opera che, come il suo protagonista, sa essere curiosa della vita e aperta alla speranza, fino ad occupare - sul filo dell’anacronismo - un tempo ideale, che non esiste realmente, ma solo nei nostri ricordi: quello della gioventù.
E’ un film più difficile da fare che da vedere quello di Pietro Marcello, che, in un liberissimo adattamento del capolavoro di Jack London, celebra un riscatto che arriva attraverso la cultura, in un percorso ad ostacoli tra ideali e delusioni, ma pur sempre consapevole che «chi costruisce prigioni si esprime meno bene di chi costruisce la libertà».
Un film denso e contemporaneo, orgoglioso della sua diversità, del suo essere privo di modelli, che racconta la parabola di un marinaio che sogna di diventare scrittore, prima innamorato e poi, quando, faticosamente, arriva alla fama, disgustato dalla vita. Giocato su una doppia traccia autobiografica (nel protagonista non è difficile riconoscere Jack London e le sue peripezie, così come anche però lo stesso Marcello, regista autodidatta perennemente insoddisfatto del presente), «Martin Eden» è un film poetico, che sì funziona meglio nella prima parte che nella seconda, ma mantiene per tutta la durata una forte identità, un credo, un'ambizione. Qualcosa che lo porta lontano dai cliché e noi con lui.
Un regalo di cui è magna pars Luca Marinelli, migliore attore alla Mostra di Venezia che si è chiusa sabato scorso (e a marzo Premio Schiaretti proprio qui a Parma), bravissimo: stella polare (in un cast che conta anche due ottimi interpreti parmigiani, Giustiniano Alpi e Savino Paparella) di un cinema di cui conosce i segreti e i tormenti.