CInema e virus: quando lo schermo racconta il contagio
Chissà se Dustin Hoffman riuscirebbe a salvare anche Codogno: con Cedar Creek, ridente cittadina Usa messa in quarantena (e minacciata di distruzione tramite bomba: si sa, l'epidemia è una cosa troppo seria per lasciarla risolvere ai militari...) ce l'ha fatta, seppure (complice una bella iniezione di pathos) in zona Cesarini. Dei film «virali» e «contagiosi» non c'è dubbio che - sin dal titolo - sia «Virus letale» (action batteriologico molto anni '90, con ispirazione diretta all'Ebola) quello che salta per primo alla memoria: fino ad allora, la paura aveva invece viaggiato soprattutto in treno. L'archetipo del terrore del contagio - e dell'insabbiamento - era «Cassandra Crossing», thriller sui binari con Sophia Loren a guidare un nutrito gruppo di attoroni.
Ma c'è da dire che il cinema, specie negli ultimi anni (ma non solo), ha spesso reso tangibile e dato un nome alla paura della pandemia: a volte in maniera più realistica, altre con fini più dichiaratamente spettacolari o metaforici. Tra i film recenti che hanno radici nella realtà (o che addirittura in certo modo l'anticipano...) l'esempio più stringente (e preoccupante) è «Contagion», pellicola da vietare agli ipocondriaci diretta da Steven Soderbergh nel 2011. Il regista di «Ocean's eleven» immagina che una manager rientrata negli Usa da Hong Kong, dopo avere contratto quelli che sembrano i sintomi di una semplice influenza, muoia a causa di un virus sconosciuto: le autorità scoprono che contiene materiale genetico di maiali e pipistrelli... Accurato nella parte scientifica, il film, per quanto non straordinariamente appassionante, funziona proprio perché realistico. Il virus non risparmia neanche le star (resta famosa l'impressionante autopsia a cui viene sottoposta Gwineth Paltrow, paziente zero) e non è la metafora di nulla ma semplicemente - e terribilmente - se stesso: «Mi affascinava - disse Soderbergh a Venezia - fare un film dove il protagonista non parlava, ma tutti parlavano di lui».
Se poi il nigeriano e abbastanza invisibile «93 days» si concentra sulle vite dei medici e infermieri che riuscirono, spesso a costo della propria vita, a contenere la diffusione dell'Ebola, molti altri film si sono allontanati dalla chiave più prettamente storico-realistica per affrontare le conseguenze - ognuno con fini diversi - della pandemia. Tra questi, un vero classico moderno è il bellissimo «L'esercito delle 12 scimmie», fantafilm di Terry Gilliam che scomoda il mito di Sisifo raccontando di un uomo che viene rimandato nel passato per scoprire l'origine di un virus che ha spazzato via l'umanità. Ma il disastro (creato in laboratorio da un biologo nichilista) qui è il pretesto per parlare d'altro.
Il cinema che affronta il contagio spesso e volentieri sfonda nel genere catastrofico: l'epidemia azzera la popolazione e l'«eroe» si trova da solo o quasi ad affrontare i frutti del male. È il caso di «28 giorni dopo», il paranoico ed efficace film di Danny Boyle dove il protagonista si sveglia dal coma in una Londra deserta: e scopre di essere uno dei pochi sopravvissuti in un mondo devastato da un virus iniettato a scimpanzè che poi, liberati dagli animalisti, infettano una donna e danno il via al contagio. Peccato che la febbre dei malati sia una furia omicida... Sulla stessa falsariga viene in aiuto anche «Io sono leggenda» (dall'omonimo romanzo di Richard Matheson da cui deriva anche «l'Ultimo uomo della Terra»)., dove è un'epidemia di morbillo geneticamente modificato ad azzerare la popolazione mondiale. Chi non è morto si è trasformato in una sorta di vampiro. L'unico uomo rimasto sulla Terra sembra essere Robert Neville, un virologo militare che sta cercando un antidoto. Ma sia questo che il film di Boyle hanno un progenitore di un certo peso: «La città verrà distrutta all'alba», anno '73, del grande George A. Romero che firma una variazione sul tema del suo film più famoso, «Zombi», con cui pochi anni prima aveva inventato un genere. Qui gli infetti - anche in questo caso incredibilmente violenti - vengono contagiati da un'arma batteriologica. A proposito di zombi - ma anche di virus letali - un posto rilevante (come fenomeno in sè, non certo nella storia del cinema) può averlo anche lo sparatutto «Resident evil» (con una sexy e mortale Milla Jovovich), che alla base ha un videogioco: qui il virus viene creato artificialmente in laboratorio e liberato stoltamente dall'esercito. Pandemia di zombi anche in un'altra pellicola molto famosa: «World War Z», con Brad Pitt in cerca di un vaccino che salvi, oltre alla sua famiglia, quello che resta dell'umanità, per lo più trasformata da una terribile infezione in mutanti simili a «non morti». Ultra spettacolare, il film ha avuto incassi stratosferici.
Altri casi in corsia, pardon in videoteca? Numerosi. Non sono d'accordo a inserire però «The road» - tratto da uno dei libri più belli degli ultimi 15 anni - perché romanzo e film non dicono volutamente da cosa scaturisce l'epidemia. Mentre entra di diritto nella lista, anche se in questo caso non si tratta di un film ma di una serie tv, quel «I sopravvissuti» che terrorizzò la nostra infanzia col suo virus letale sfuggito a un laboratorio, guarda a caso, cinese. Nel gruppo, infine, anche se in modo più trasversale, il recente e intimista «Light of my life», dove un contagio ha ucciso quasi tutte le donne (fa il pari con «I figli degli uomini» in cui l'umanità non è più fertile), il meno noto «It comes at night» e soprattutto «Cabin fever», efferato debutto di un allora 30enne Eli Roth, poi assunto al rango di maestro dell'horror. Come in altri casi, anche questa volta il contagio parte da un animale, in questo caso un cane trovato morto dal suo padrone.
Nel complesso, quindi, molte macerie, devastazioni di ogni ordine e grado, ma anche qualche lieto fine: consoliamoci, al cinema, di solito, va molto peggio che nella vita reale. E chissà che guardare questi film, spesso eccessivi ma talvolta aperti alla speranza, non serva da antidoto alle nostre paure quotidiane.