In memoria di Luca Goldoni
Non so dove sia, ma so cosa sta facendo: sta sorridendo. Perché ce l'aveva nel sangue l'ironia, ci si svegliava la mattina e ci andava a letto la sera: come la finta del calciatore che manda a vuoto l'avversario. O il gioco di prestigio del mago che taglia la donna a metà, ma mica per davvero. E no, non è certo uno scherzo banale come la morte che gli possa fare venire, adesso, la faccia scura: lui che qualche tempo fa, quando gli anni erano - cifra tonda e tanti auguri - 90 mi disse così: «Volevo fare un ultimo libro ma per ora ho solo il titolo: “Scusate il disturbo se passo a miglior vita”».
Dei tre - gli altri erano Giorgio Torelli e mio padre Baldassarre - era il bello. E forse il più ritardatario: li ha raggiunti proprio ieri. Posso vederli: camminano sottobraccio, sorridono al futuro, come in una vecchia foto in bianco e nero, quando diciottenni o poco più al Romagnosi vivevano il tempo «terribile e bellissimo» delle scoperte.
Lei m'insegna, si potrebbe dire citando uno dei folgoranti titoli dei suoi tanti libri, amati e vendutissimi: ma di fatto, è davvero così. Non è mai salito in cattedra, preferendo piuttosto confondersi tra i banchi: eppure, Luca Goldoni da Parma, è l'uomo che ha spiegato agli italiani chi erano davvero. Passando al setaccio di un arguto umorismo i loro (molti) vizi, le loro (meno frequenti) virtù. Senza pretendere di indossare la tunica del gran censore: ma, piuttosto, ridendo «con» loro piuttosto che «di» loro.
È stato inviato speciale dai fronti di guerra e là dove la Storia non passava la mano (come a Praga '68, quando, su consiglio di Egisto Corradi, per aggirare la censura dettò gli articoli in dialetto parmigiano...), cronista di nera, opinionista del Corriere della Sera e di molti altri quotidiani e settimanali, oltre che autore di decine di libri: ma più di tutto un geniale e innovativo giornalista di costume, penna raffinata e tagliente (ma con una sua tenerezza) che ha inventato un modo di scrivere, «cambiando - scrisse Michele Brambilla, già direttore della «Gazzetta» e suo fan numero uno («faccio il giornalista grazie a lui», gli ho sentito dire spesso) - la storia del giornalismo». Non male per uno che andava a ripetizioni di italiano: «Ero negato», giurò. «Ero l'ultimo degli ultimi». Ci credo poco, ma so che non mentiva quando diceva di avere cominciato a scrivere solo perché mio padre Baldassarre faceva un giornalino con la stilografica: «Se avesse fatto il capo stazione adesso sarei diventato ferroviere, se avesse fatto il sindacalista sarei un Cobas...». Si schermiva: «Se sono diventato un falegname della parola, un artigiano della letteratura, è stato solo per orgoglio».
Non so se lui lo sapesse, ma noi, tutti, senz'altro: era un fuoriclasse. Aveva fascino da vendere, carisma e occhi azzurri: e non ebbe paura nella mia ultima intervista a confessarmi, senza spocchia: «Rifarei tutto». Anche se - aggiunse - «penserei un po' di più agli altri». Trovava l'Italia molto peggiorata rispetto a quella goffa, mediocre e un po' arraffona che raccontò nei suoi libri: e nemmeno la classe politica (c'è da capirlo) lo faceva stare sereno: «Sai, noi avevamo La Malfa e De Gasperi: non c'è paragone...».
È stato un uomo brillante, ostinatamente curioso, capace come pochissimi di essere testimone del suo tempo, intercettandone le piccole miserie, i desideri malcelati, le grandi ma anche infime trasformazioni. Per farlo non ha smesso di stare al passo coi tempi: non amava il Web né la tecnologia e i cyber bulli lo scandalizzavano, ma non volle rinunciare a dialogare con il mondo su Facebook. Ben consapevole però che «basta un “mi piace” a volte per rovinare tutto».
Ha amato scrivere fino all'ultimo, perché nulla forse gli è piaciuto di più: per quante parole perdesse erano sempre quelle giuste che metteva in fila. «La morte - mi disse - è una scocciatura spaventosa: anche per gli altri, che devono fare i necrologi...». Non questa volta, Luca.