Killers of the flower moon, Scorsese sacro e implacabile
Suo padre lavorava in una lavanderia, sua madre era una sarta, lui da piccolo voleva farsi prete; ma se gli chiedete qual è l'unica tribù di cui ha indossato i colori, quale sia il suo «popolo del cielo», non potrà che rispondervi in un'unica maniera: quello del cinema.
Scorsese dissotterra l'ascia di guerra: e in un epico scontro tra civiltà, racconto di un'America che cambia per non cambiare mai, denuncia la grande truffa dei visi pallidi, figli del dio dollaro, lingue biforcute. Firmando con l'attesissimo (e già molto applaudito a maggio al Festival di Cannes) «Killers of the flower moon» un film implacabile e risoluto che va molto al di là dell'aspetto storico per assurgere piuttosto a tragedia dell'avidità, parabola non solo morale ma cinica e spietata della sopraffazione delle minoranze da parte dell'uomo (e del potere) bianco.
Una ballata per lupi feroci, dove la maledizione dell'oro (nero) si abbatte sia sulle vittime che sui carnefici, un film dove tutto - come spesso in Scorsese - è rito, rituale, messa in scena compresa. Adattato per lo schermo insieme a Eric Roth, lo sceneggiatore premio Oscar per «Forrest Gump», il libro di David Grann, il regista di «Taxi driver» e «Toro scatenato» chiama sullo schermo i suoi figli prediletti - Robert De Niro e Leonardo DiCaprio (bravissimi: ma l'interpretazione monstre è quella della sorpresa Lily Gladstone) - per recuperare la fragilissima memoria («la gente dimentica», dice a ragione il villain della storia) della vicenda cruenta degli indiani Osage, diventati milionari dopo avere scoperto nelle loro terre, negli anni '20, il petrolio. Una ricchezza che fa gola a molti: tanto che, in circostanze sempre più misteriose, gli indiani cominciano a morire uno dopo l'altro...
Restituito il diritto alla conoscenza a una storia altrimenti perduta, non tanto minore quanto in realtà emblematica, Scorsese, sul sottofondo costante e tribale di Robbie Robertson (vecchio amico dai tempi di The Band), porta i movimenti ampi del grande vecchio cinema agli albori dell'era moderna, dove l'automobile sta soppiantando il cavallo, facendo del suo film un appassionante western moderno (e civile) lungo più di tre ore (che volano) in cui sangue e razza, qui fondamentali, rappresentano non a caso concetti non ancora superati dalla contemporaneità.
Il crimine, la tragedia familiare, l'umana debolezza: tra cartelli da cinema muto e brillanti escamotage narrativi (il destino dei protagonisti spiegato attraverso un melodramma radiofonico), il cineasta italo-americano (che si ritaglia anche un'importante apparizione) investe di sacralità i suoi temi ricorrenti. Convinto, una volta di più che sì la gente dimentica. Ma il cinema no