La conversione del medico egocentrico: se Dio vuole...
Si apre con una citazione di Battiato e finisce sulle note del «principe» De Gregori: ma in mezzo piange (ahimè) ascoltando Gigi D’Alessio... Fosse stato per noi, l’avremmo voluto più cinico: eppure è divertente, specie nella prima parte, quando – non ancora infilate le braghe corte da boy scout – gratta via la crosta dell’ipocrisia borghese, lasciando che il muro della razionalità si riempia a forza di testate, qua e là, di crepe. Che, se Dio vuole, questo mica è solo un duello sul ring della fede (persa o ritrovata): ma, piuttosto, la storia di una conversione. Qualcosa che ha che fare col coraggio: quello di guardare la vita e le cose da un altro punto di vista, di smussare gli angoli, di ritrovare il piacere delle curve (anche quelle cieche) là dove da troppo tempo la strada è simile a un noioso rettilineo.
Chirurgo ateo, egocentrico e insopportabile, con moglie depressa e ubriacona, figlia decerebrata e genero miserabile cerca di stanare il prete rock con passato al fresco e accento romanesco per cui il figlio stravede: tanto da pensare di abbandonare Medicina per indossare l’abito talare...
Partita come una brillante divagazione sul tema dell’outing (passi gay, ma prete no...), l’opera prima di Edoardo Falcone (un passato recente da sceneggiatore) si trasforma, con il passare dei minuti, nello scontro, senza esclusione di colpi, tra due idee di mondo, in cui il misantropo e apprensivo genitore col camice bianco si sorprenderà a scoprire che non è facile essere degni di portare quella veste nera; il confronto tra opposti (di spiccata personalità) strappa la risata, e il contesto (come il quadretto) risulta (anche se sopra le righe) garbato: ma pur avendo l’occasione di tentare i protagonisti con la serpe della satira, il giovane regista preferisce accompagnare con accomodante umanità il suo medico misantropo alla riscoperta di quell’io che ha smarrito tempo addietro sotto una fredda corazza. Perdendo però così da una parte l’occasione di girare un film più pieno, complesso, corrosivo: e dall’altra scivolando prevedibilmente (con codici e svolte comprensibili al «grande pubblico») in una dimensione più «sentimentale», facile, anche quando venata di malinconia. E se il film sta in piedi, alla fine, più che per il copione (che ha alti e bassi, pregi e difetti) è per l’alchimia dei due «mattatori», il chirurgo Marco Giallini e il prete Alessandro Gassman, entrambi in grande forma: due interpreti come Dio comanda.
"Il nome del figlio": la parola attore esiste
Metti una sera a cena: il film che visse tre volte (la prima a teatro, poi al cinema - in una premiata pellicola francese -, e ora infine in questo godibile remake made in Italy) è un flipper impazzito di frustrazioni, di bugie, di delusioni, come certi giorni che «ti impapocchiano i pensieri», tra bimbi dai nomi assurdi (tipo Pin, che pensi sia un ex centrocampista del Parma e invece è un omaggio a Calvino), musicisti in remata che lavorano su versioni jazz delle canzoni del Califfo, figli di papà che sfoderano magnum di champagne e fidanzate (molto) più giovani e il suv lo parcheggiano nel posto riservato ai disabili.
«Eroi» (si fa per dire) dei nostri tempi, che si tatuano mezzi cuoricini e nemmeno hanno tempo di andare ad aprire la porta per non perdersi l’ennesimo retweet; specchio e spaccato di un’epoca ipocrita, egocentrica e innamorata di se stessa: che se però si piange addosso è solo per poi ritrovare un sorriso, un modo (magari sulle note di Lucio Dalla) di ripartire.
Fratello e sorella di ottima famiglia, il marito di lei e la ragazza (coatta e incinta) di lui, più un amico di infanzia: una serata come mille. Che invece sarà diversa da tutte le altre...
Saporita e pungente commedia corale in bilico tra passato e presente, il nono film di Francesca Archibugi guarda a «Carnage» (ma con molta più tenerezza che cinismo) muovendosi tra grandi segreti e scherzi crudeli togliendosi di dosso, grazie a un ritmo disinvolto, un’ovvia teatralità. Certo, il meccanismo è già noto (dal confronto adolescenza/maturità alla cena come resa dei conti o gioco al massacro) e c’è a tratti nell’impiattamento della regista di «Questione di cuore» una certa maniera borghese: ma è indubbio che la pellicola è vitale, anche nel suo saper ferire. E nella messa a nudo di ogni debolezza, «Il nome del figlio» rivela la vocazione da film d’attori, scatenando una bella jam session di interpreti ispirati (dalla Ramazzotti alla Golino, da Papaleo a Lo Cascio): una gara di bravura dove primeggia Alessandro Gassman. Uno a cui, alla luce delle ultime prove, bisognerebbe chiedere scusa.