Ecce Nanni: la solitudine del regista e l'analisi (il)logica dell'emozione
<Tutti pensano che io sia capace di capire quello che succede, di interpretare la realtà, ma io non capisco più niente>.
Che poi bisognerebbe sapere che ne sarà di tutti quei libri: e dei sorrisi, degli istanti insieme, dei ricordi. Se tutto svanirà, verrà dimenticato, in un'amnesia che non è solo svista individuale, ma malattia collettiva, sociale, o se invece qualcosa resterà, da qualche parte, in qualche cassetto, custodito da chi ci amava, anche da lontano, anche in silenzio.
E' come guidare un'auto ad occhi chiusi, o sentirsi orfani, prima del tempo, anche di se stessi, l'ultimo, doloroso, film di Nanni Moretti: una pellicola in cui l'autore di <Caro diario> e <La messa è finita> si fa delicatamente da parte (quasi uscendo dal quadro) per proiettare sugli altri protagonisti ansie, paure e incertezze che gli appartengono, che sono sue. Un percorso di autoanalisi in cui Moretti fa i conti con sé, andando al di là della rappresentazione cinematografica (<troppo finta>, costruita) per riappropriarsi del reale, della verità delle cose, dei sentimenti. Una sorta di confessione dove il 61enne regista - alternando sequenze di grande intensità drammatica ad altre assolutamente esilaranti, momenti di lancinante poesia (la madre che cammina da sola, spersa, per la strada) a parentesi di imprevista dolcezza (la ragazzina che impara ad andare in motorino...) -, mette a nudo con commovente sincerità le sue debolezze, le sue fragilità. Riformulando, con un talento e una sensibilità che appartiene ai grandi, l'analisi (il)logica dell'emozione.
L'amarezza, violenta e sfiancante, del dovere combattere una battaglia che si sa già che non si può vincere, l'elaborazione di un lutto e di un'assenza a cui non si è mai abbastanza preparati, il senso di disarmata inutilità davanti all'inevitabile: nella storia di una regista (Margherita Buy, bravissima alter ego dell'autore), che, mentre sta girando un film con un divo hollywoodiano e cazzaro (un incontenibile John Turturro) sull'occupazione di una fabbrica, assiste con il fratello (lo stesso Nanni) la madre morente (Giulia Lazzarini, teatro con Strehler e tv di quella vera), Moretti coglie (proseguendo così un discorso iniziato con <Habemus Papam>) un senso di smarrimento comune, la solitudine (e la perdita di controllo, di potere, di certezze) del regista – che <è uno stronzo a cui voi permettete di fare di di tutto> -, ma anche quella dell'individuo.
Un film autobiografico (sin dal titolo) <Mia madre> (privato e intimo quanto e più de <La stanza del figlio>) che però parla a tutti e non esclude, a priori, nessuno, dove Moretti, travolto dal caos per nulla calmo dell'anima, da un senso di inadeguatezza sempre più insuperabile, invita se stesso, senza retorica, a rompere gli schemi, a riprovare a essere leggero, a fare qualcosa di nuovo, di diverso. E tra code infinite per <Il cielo sopra Berlino>, incubi, flashback e citazioni (una anche, non so quanto consapevole, de <La califfa>), l'autore (che a Cannes insieme a Sorrentino e Garrone formerà un clamoroso tris d'assi calato in concorso), cullato dalle note di Arvo Part (ma c'è anche Cohen e la splendida <Baby's coming back to me> di Jarvis Cocker), riesce davvero nell'intento, lasciando che baleni più pace che sconfitta nell'ascoltare, oltre al suo, il cuore stanco del mondo.