2022, Recensione Filiberto Molossi 2022, Recensione Filiberto Molossi

Belfast, è stata la mano di Branagh

«Fai il bravo. E se non puoi fare il bravo, fai attenzione». E' un film affettuoso e struggente, amaro, ironico, tenero e nostalgico, girato ad altezza bambino, con la cinepresa spesso piantata per terra e gli occhi spalancati su una realtà che sa essere magnifica e terribile, «Belfast»: «la mano di Dio» di Branagh che (dopo Sorrentino e poco prima di Spielberg) torna all'infanzia (la sua, irresistibilmente cinematografica e convintamente nordirlandese), per dedicare questo salto all'indietro senza rete, molto bello e molto sentito, a chi è rimasto, a chi se ne è andato e a chi, invece, si è semplicemente perso. Partite a pallone e filo spinato, tabelline e perquisizioni, la ragazzina bionda del primo banco e il coprifuoco: quando in strada scoppiavano le molotov, ma si poteva ancora ballare. E il coperchio di un bidone della spazzatura era lo scudo per affrontare i draghi. Oppure i sassi dei giorni dell'Ira. Dichiarazione d'amore alla città che lo ha visto crescere e che è stato costretto a lasciare troppo presto, «Belfast», candidato a sette Oscar (tra cui quello per il miglior film) e vincitore del Festival di Toronto, è il film più personale e intimo di un regista capace di sbancare i botteghini nei panni di Poirot, passando con disinvoltura estrema (e discreto becco di ferro) da Shakespeare a Thor e Cenerentola, senza però mai tradire (o, peggio, abiurare) la meraviglia del cinema che lo travolse sin da bambino, quando in sala le automobili volavano e in tv davano «Mezzogiorno di fuoco» e «L'uomo che uccise Liberty Valance». Girato nel bianco e nero luminosissimo della memoria (che sostituisce il colore del prologo in un'apertura di grande impatto ed efficacia che già dice tutto), «Belfast» punta la macchina del tempo sull'anno domini 1969, quando, ad agitare l'infanzia felice di Buddy (Jude Hill, deb favoloso) arrivarono i «troubles», il conflitto tra cattolici e protestanti che portò il Paese al caos. Una tragedia nazionale che trasformò la strada dove abitava la famiglia (protestante e pacifica) del regista in un campo di battaglia. Eppure l'amore poté più della violenza, il ricordo, anche nel dramma, sa di zucchero. E sulle note di Van Morrison, Branagh, nella sua rievocazione semiautobiografica, trova primi piani che parlano, un bel taglio e un cast perfetto anche nei caratteristi. Nella consapevolezza di non avere lasciato indietro nessuno: perché qualcuno deve rimanere per forza. «Se no chi proverà nostalgia per chi se ne è andato?».

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Assassinio sul Nilo: Branagh è un Poirot che ha paura d'amare

«L'amore fallisce». Poirot invece no. E nemmeno Kenneth Branagh se la cava male: fresco di 3 nomination all'Oscar (produttore, regista e sceneggiatore) per l'autobiografico e intimista «Belfast» (che in tutto ne ha raccolte 7) torna ora nei panni (e soprattutto nei baffi) del detective più famoso del mondo: rispolverando nuovamente, sceso vincitore dall'Orient Express (oltre 350 milioni di dollari incassati nei cinque continenti), la libreria dei gialli di Agatha Christie con una versione sfarzosa ed extra lusso - nonché elegante e vendicativa - di «Assassinio sul Nilo», intrigo avido spavaldamente vintage e romantico. Certo, si potrebbe (e si dovrebbe) obiettare che prima che ci scappi il morto - annunciato ampiamente sin dal titolo - passa un'ora tutta e che il meccanismo, per quanto oliato, ci metta il suo per mettersi davvero in moto; ma Branagh d'altra parte affronta anche un film fondamentalmente commerciale come questo con la calligrafia bella e tonda dell'autore, sin dal doppio prologo - uno in bianco e nero, durante la prima guerra mondiale (che svela la ragione dei baffoni del protagonista), l'altro, al contrario, caldissimo e sensuale, acceso nel colore -, passando per i continui movimenti circolari (e accerchianti), la confezione di gran classe (specie quando non esagera col digitale), le domande che incalzano risposte che già conoscono. Invitato un super cast (con lui, tra gli altri, la wonder woman Gal Gadot, il discusso Armie Hammer e Annette Bening) alle nozze di una magnifica ereditiera con un bellimbusto squattrinato (coppia del giorno nel mirino, nemmeno troppo metaforicamente, della ex di lui), Branagh parte per una crociera su un Nilo che pare (indovinata l'idea del sottofondo blues) il Mississippi, tra atmosfere esotiche, riprese ampie e segreti sparsi. II treno del primo film è ora diventata una nave: ancora un non luogo, ancora un mezzo di trasporto (o meglio una trappola per topi) da cui non si può scendere né scappare. Ancora, soprattutto, teatro: la comfort zone del regista nordirlandese. Che più che nell'intrigo ben costruito, nel fascino minaccioso della passione e della ricchezza gioca le sue carte migliori quando guarda nel fondo del cuore di Poirot, accarezzandone le fragilità, dando forma alla solitudine di un uomo che ha paura di amare. E che sa che prima o poi, se non vorrà restare per sempre solamente l'invincibile ma compatito arbitro delle vite altrui, dovrà accettare di mostrare al mondo le sue cicatrici.

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