Quel giorno in via Fani: Moro, la scorta, Zizzi e mio padre
Il giorno in cui rapirono Moro mio padre mi venne a prendere a scuola. Era la prima volta. E in effetti non c'era ragione, se ci pensi, che quella cortesia diventasse abitudine: aule e classi distavano da casa mia una quarantina di metri. Cinquanta a essere generosi. Ma quel giorno, il giorno in cui rapirono Moro, mio padre era lì, fuori dal cancello, ad aspettarmi. Questa storia l'ho già raccontata e non è detto che vi interessi ascoltarla ancora. Anche perché a pensare a ritroso si rischia di inciampare, dimenticarsi degli spigoli, scivolare nella retorica. Ma sarebbe profondamente ingiusto non togliersi i sassi dalle tasche e lasciare che la Storia, a cui spesso sfugge il senso delle cose, releghi cinque come noi ad anonime comparse della tragedia. Comprimari anche da morti, il coro senza voce di un dramma troppo più grande di loro. Perché quel 16 marzo del '78, il giorno in cui mio padre venne a prendermi a scuola, in via Fani gli uomini delle Brigate rosse sull'asfalto lasciarono, in un lago di sangue, cinque corpi: ragazzi come loro, in alcuni casi anche più giovani. La scorta dell'onorevole Moro. Agenti pronti a tutto: ma non a quel massacro deciso a tavolino, non a quella assurda e inutile furia disumana. Cinque uomini abbattuti come birilli, uccisi senza pietà: ragazzi semplici, padri, mariti, figli, fratelli. Meri ostacoli in divisa, l'intralcio all'azione che doveva consegnare i brigatisti, quei patetici mediocri che giocavano con la vita degli altri, alla storia rivoluzionaria. Contro la scorta quel commando feroce sparò qualcosa come cento colpi: molti anche alle spalle, come si conviene ai codardi, ai vigliacchi. Quel giorno, era anche il primo giorno di servizio nella scorta di Moro di Francesco Zizzi, che tutti chiamavano Franco: non doveva nemmeno essere lì, Zizzi. Aveva semplicemente sostituito un collega: come se il destino lo avesse aspettato, come se all'angolo tra via Fani e via Stresa ce lo avesse portato per mano. Non aveva ancora compiuto 30 anni, anche se i baffi e la divisa lo facevano assomigliare più a un uomo che a un ragazzo. A Roma Francesco, originario del Brindisino, era arrivato da Parma: era in forza nella nostra Questura dal gennaio '77. E qui, nella nostra città, si era trovato bene. Ma voleva sposare Valeria, che stava a Latina: per quel motivo chiese il trasferimento a Roma. Era andato nella capitale per iniziare il suo futuro: ma ad attenderlo trovò solo la morte. Era seduta con lui, al posto del passeggero, sull'Alfetta che precedeva la macchina di Moro. Non arrivò vivo all'ospedale Gemelli. Conoscevo la sua faccia, anche se non posso ricordarla: prima di essere assegnato al presidente della Dc, quel vicebrigadiere educato infatti aveva fatto parte anche della scorta di mio padre, allora - nell'epoca in cui si sparava anche alle idee - direttore della Gazzetta di Parma. Quando hai appena otto anni non è una cosa che ti spiegano. Poi un giorno sei dal barbiere e tuo padre ti viene a prendere con persone che non hai mai visto. E ti fa salire su una macchina che non è la sua, dove al volante c’è un estraneo. E nessuno ha voglia di parlare, nessuno dice niente. Allora capisci: e quello che ricordi non sono tanto le facce, ma il silenzio. Un silenzo diverso da tutti gli altri. «Erano poliziotti». «Lo so papà». Era serio, perbene, professionale, Zizzi: e con la battuta pronta, dicono. Lo assegnarono a mio padre che la scorta non l’aveva nemmeno chiesta: ma gli venne data ugualmente. «Io avevo un'Audi 100 e mi seguiva una macchina della polizia fino in garage - raccontò una volta -. Poi mi dissero: così non va bene, venga su con noi. Sì, c'era anche Zizzi: lo ricordo con molta simpatia». Chissà: forse un giorno il vicebrigadiere avrebbe portato la sua Valeria a Parma. A farle visitare la città dove aveva vissuto giorni felici. Nella memoria resta invece lo strazio in bianco e nero dei funerali a Fasano, il suo paese natale, la medaglia d'oro al merito civile, il nome di una via, persino una canzone, «Mario», di Jovanotti(«E mio padre Mario mi diceva quando avrai un po’ più anni potrai dire io c’ero ai funerali degli agenti della scorta di Moro»…). E una targa, nell'atrio della questura di Parma: dove oggi verrà posta una corona. Non piangeva spesso mio padre: ma quella volta sì. La volta che gli dissero che Francesco - quel bravo poliziotto -, era stato ucciso. Il giorno che per la prima volta mi venne a prendere a scuola. Il 16 marzo, anche allora: ma di quarant'anni fa. Un tragico giorno che non si può dimenticare. E nemmeno - per rispetto a quei cinque giovani uomini rimasti sull'asfalto - si deve.