Tornatore racconta Morricone: il genio che ha scritto la colonna sonora della nostra vita
Ha ragione (anche stavolta, verrebbe da dire) Bernardo Bertolucci: «Non ho mai visto un fenomeno come lui». Già: lui che sognava di fare il medico ma il padre voleva suonasse la tromba, lui che la musica di «Se telefonando» gli è venuta in mente mentre andava a pagare la bolletta del gas, lui che un giorno chiama un amico (Alessandroni) e gli dice «vieni a farti sta fischiatina»: era «Per un pugno di dollari». Sì, proprio lui: che giocava (e vinceva...) a scacchi con Malick, ha detto no (a malincuore) a Kubrick e ad «Arancia meccanica», ma ha pure inventato il formidabile «A A» iniziale di una hit balneare (e immortale) come «Abbronzatissima». E adesso, per favore, tutti in piedi: standing ovation per il maestro Morricone. «La grande eccezione a tutte le regole» (parola di Nicola Piovani), il cui genio travolgente ma umanissimo rivive ora nell'entusiasmante documentario-tributo di Giuseppe Tornatore. Che dentro a «Ennio» mette la storia (e che storia!) del cinema, ma anche la confessione a cuore aperto e groppo in gola di un uomo che, fondamentalmente, capiva un film meglio e prima del regista che lo girava. Montato benissimo, con senso orchestrale (e ritmo musicale), sin dal prologo, assai efficace, senza note ma scandito solo dal tic tac del metronomo, quello di Tornatore è l'omaggio sentito, partecipe e rivelatore all'uomo che, provocando uno choc culturale, ha riscritto il vocabolario della musica, ma che prima dell'approvazione del regista cercava sempre quella della moglie. Dagli arrangiamenti per il Quartetto Cetra a quelli per «Sapore di sale» e «In ginocchio da te», dal verso del coyote per l'amico Leone al tema di «Novecento» - più verdiano di Verdi - scritto al buio, dalle notti passate a suonare con il padre nei locali per due soldi alla colonna sonora spartiacque di «Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto»: un flusso continuo di ricordi che Tornatore tesse in una ragnatela sentimentale dove le voci dei più grandi (Bertolucci, Eastwood, Tarantino, Springsteen e molti altri), raccolte con pazienza certosina in questi anni, si fondono con quella del maestro scomparso nel 2020. Protagonista e coro di un'opera che non nasconde la delusione per l'Oscar assurdamente negato a «Mission» né il complesso di inferiorità di Morricone verso i musicisti «puri» e accademici che lo snobbarono per decenni facendolo sentire moralmente «colpevole». Ma che racconta anche il riscatto di un compositore senza uguali, capace di fondere insieme la prosa e la poesia, sperimentale e insieme logico, istintivo e preparatissimo: lo stesso che, in un documentario che a tratti sa essere struggente come le sue colonne sonore, Tarantino oggi accosta a Mozart e a Bach. Il paragone a freddo, forse, vi sembrerà esagerato: ma, dopo avere visto «Ennio», di certo non blasfemo.
Hungry hearts, il film-catarsi di Costanzo
Prende in prestito il titolo a una canzone di Bruce Springsteen (ma fa quasi scattare l'applauso quando spara a tutto volume il tema di <Flashdance>...) e dice di essersi ispirato a Cassavetes (<al suo approccio un po' spregiudicato, ribelle>): ma di fatto è decisamente più bravo che presuntuoso. Anche perché giunto al quarto film, Saverio Costanzo dimostra di possedere una spiccata e per nulla banale personalità sia dal punto di vista formale che da quello narrativo, realizzando con <Hungry hearts> una pellicola soffocante e opprimente, disturbante e <malata>: un insolito approdo, o se preferite un'isola (in)felice, in un cinema italiano che al contrario cerca a ogni piè sospinto (e ad ogni costo) di piacere.
Partito benissimo - complice una ripresa a macchina fissa claustrofobica (che poi è la condizione di tutto il film), agitata e divertente, con i due protagonisti (ancora perfetti sconosciuti) che cercano di uscire dal bagno del ristorante dove sono rimasti chiusi -, <Hungry hearts>, che trasforma in breve tempo la spensieratezza iniziale in paranoia metropolitana fino a toccare atmosfere da horror dell'anima, racconta a <strappi> (con quei quadri separati da dissolvenze al nero che raccontano molto anche senza dire) la storia di una giovane coppia - lui americano e lei italiana -, che aspetta un bambino. La madre però sin da subito vive in maniera ossessiva il rapporto con il piccolo: e convinta di fare il suo bene non gli dà da mangiare carne e non lo espone praticamente mai alla luce del sole...
In una New York mai così poco attraente, un film che sta sempre addosso ai suoi personaggi - prima privilegiando inquadrature molto strette, poi attraverso riprese deformate - in un crescendo angosciante in cui il regista italiano coglie l'incubo molto contemporaneo di una <purezza malata>, lavorando di nuovo su temi a lui cari come la trasformazione del corpo, il rifiuto del cibo, l'isolamento, l'autolesionismo.
Tratto da <Il bambino indaco> di Marco Franzoso, girato in modo istintivo per non avere il tempo né la voglia di giudicare nessuno dei suoi personaggi, <Hungry hearts> è un film-catarsi (<volevo guardarmi con più amore e tenerezza>, ha spiegato Costanzo) potente e spigoloso dove i due bravissimi interpreti principali – Alba Rohrwacher e Adam Driver (divo della serie tv <Girls> e prossimo protagonista del nuovo <Guerre stellari> e dell'ultimo film di Scorsese) -, entrambi premiati con la Coppa Volpi a Venezia, diventano i complici perfetti di un regista che a ogni inquadratura sembra volersi (e forse volerci) mettere alla prova.