Recensione Filiberto Molossi Recensione Filiberto Molossi

Forza maggiore, una coppia sotto la valanga del non detto

C’è qualcosa, sotto la neve. Sotto la valanga del non detto (e dell’indicibile), del sottinteso, dell’inespresso: c’è il campo minato su cui poggiano, inconsapevoli, le nostre certezze, il punto di rottura di un rapporto travolto dalle sue stesse inammissibili paure, la crisi della famiglia perfetta (quella, altrove sorridente, degli spot) soffocata dall’impossibilità di ammettere le proprie, odiose, debolezze. 
Ti viene addosso quando meno te l’aspetti, «Forza maggiore»: e ti tiene lì, senza darti scampo, come se fossi bloccato alla stazione in un giorno di sciopero dei treni, mentre nel bianco che annulla dell’apnea dei sentimenti disegna le linee invisibili ma implacabili del disagio e del rancore, del dubbio e della colpa. Audace, anche da un punto di vista sociologico e antropologico, sinistro (pur nel suo sarcasmo nordico), claustrofobico e potente, il dramma etico e intimissimo – osannato a Cannes 2014 - dello svedese classe ‘61 Ruben Östlund è una raggelata sinfonia che dal nulla crea situazioni di pura – ingestibile – tensione, un bellissimo film sulla coppia e sulle sue dinamiche più private (che a volte per rivedere il sole devi scavare nella slavina di delusioni e menzogne che ha sepolto le tue sicurezze...), sulle sue fragilità, così come sulla solidità solo apparente e fasulla della famiglia, che smette di esserlo quando invece conta.
Tomas e Ebba vanno in settimana bianca coi figli piccoli sulle Alpi francesi: ma un giorno, mentre sono al ristorante, una valanga sembra travolgerli. E’ il panico: e l’uomo, noncurante di bimbi e consorte, scappa a gambe levate, non prima di avere raccolto guanti e cellulare... Feroce, nelle sue rese dei conti così come in certi assordanti silenzi, «Forza maggiore» è un film denso e spesso, stratificato, oltre che pieno di sorprese, nonché molto ispirato anche da un punto di vista stilistico, tra inquadrature che tagliano le teste dei soggetti della scena e piani sequenza a camera fissa dove il regista (come quando in una vetrata alle spalle dei protagonisti, durante un drammatico confronto, si staglia il riflesso gioioso di una festa di compleanno) accarezza spesso il piacere della dissonanza. C’è molto Haneke (certe gelide inquadrature, il rigore non solo formale nell’analizzare sino a spolparli sentimenti, stati di calma apparente, privazioni), ma tanto fa anche l’ambientazione (inquietante e prevaricatrice sia in interni che in esterni) nel film di Östlund: che suona la sua nota sino quasi a bruciare la corda, affrontando, in un bellissimo finale di grande forza metaforica, le discese ardite del sentimento, dove scendere da un mondo che non ha più controllo a volte significa ritrovarsi.

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Filiberto Molossi Filiberto Molossi

Timbuktu: quel gol all'integralismo nella partita senza pallone

Il cinema ha un potere strano: e segreto, e indecifrabile. E misterioso, anche. Ti dice con un semplice movimento - come una carezza invisibile che ti inumidisce gli occhi e ti gratta il respiro -, il perché e il percome delle cose. Che puoi sbatterci la testa a forza di leggere saggi su saggi, ascoltare tg, dibattere sui social teorie da bar: ma poi vedi dei ragazzini correre sulla sabbia e capisci tutto. La follia senza fondo della jihad, il massacro di Charlie Hebdo, il non sense di un fanatismo persino patetico nella sua crudele brutalità. E’ tutto lì, in una sequenza, bellissima davvero: quella dove - sapendo che chi viene trovato a giocare a calcio sarà punito per la legge islamica con 20 frustate - un gruppo di ragazzini inscena un’emozionante, spettacolare, partita senza pallone. Tackle, cross, tiri in porta. E a qualcuno scappa pure di sorridere: la mimica della resistenza, lo schiaffo, muto, all’orrore. 
E’ un film riuscito, ma soprattutto importante ed emblematico nella sua drammatica attualità, raccontata con un’urgenza che coglie anche la portata paradossale della tragedia, la fatale stupidità del fondamentalismo, «Timbuktu» dell’africano Abderrahmane Sissako, feroce eppure lirico nel denunciare la follia dell’integralismo islamico che sta schiacciando il Mali (e non solo...). L’antica Timbuktu viene invasa e sorvegliata a vista da un gruppo di fanatici armati di mitra. Da un giorno all’altro è proibito tutto: ascoltare musica, fumare, telefonare in strada. Le donne devono portare i guanti e non possono frequentare uomini, se entrambi non vogliono finire lapidati... «Dove è Dio in questo?», si domanda uno dei protagonisti. A chiederselo è anche il regista, nato in Mauritania e poi emigrato in Francia, che, mentre il seme della violenza contamina gli ultimi paradisi rurali e pacifici della fascia sub sahariana, gira un film intimo e politico (oltre che premiatissimo: nomination all’Oscar a parte come miglior lungometraggio straniero, ha fatto incetta di César, l’Oscar francese, vincendone ben 7, tra cui il premio a migliore film dell’anno) capace di toccarci con intrinseca e poetica verità. Come quando, per l’appunto, omaggiando «Blow up» di Antonioni, corre dietro a un pallone che non c’è: geniale sberleffo a chi vorrebbe sottomettere e uccidere anche la fantasia. Ma sa che quella partita, adesso, la stiamo giocando tutti.

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