Apes revolution: Cesare (non) deve morire
La mia recensione di Apes revolution
Cesare (non) deve morire. E' un film di fantascienza che guarda al futuro ma ha radici in un glorioso passato, un blockbuster estivo e tridimensionale costato 170 milioni di dollari (prontamente recuperati nel giro di tre weekend...) e uscito in America in 4 mila sale: ma è anche la Striscia di Gaza. E l'Iliade. E la rivoluzione bolscevica, pure. Perché il sequel del nuovo <Pianeta delle scimmie> è un film che parla di quello di cui sono pieni i telegiornali e i libri di storia: e le utopie. Un kolossal dalla chiara e dichiarata vocazione pacifista che sa che la pace, spesso, è un'occasione perduta: un film sulla convivenza – approdo (im)possibile -, sull'incontro, sul dialogo, faticoso, tra culture differenti e diffidenti. Dove, da una parte o dall'altra, la follia di pochi è causa dell'inferno di tutti: e la guerra, ancora e sempre, resta la più scontata delle opzioni.
Tra le macerie di una civiltà e l'alba di un'altra, un film spettacolare e brulicante che corre sui binari del filone post apocalittico andando al di là dell'evidente metafora interrazziale per riflettere, con amarezza, sui limiti di un confronto minato da pregiudizi e preconcetti. Diretto da Matt Reeves (è quello di <Cloverfield>) con ambizioni non usuali per una pellicola di questo budget e attraversato da molteplici riferimenti incrociati alla tragedia classica e shakespeariana (il <Giulio Cesare> su tutti, ma anche <Amleto> e molte altre), <Apes revolution-Il pianeta delle scimmie> racconta di un'umanità sull'orlo dell'estinzione costretta a chiedere aiuto alle scimmie, parlanti e sempre più evolute, per sopravvivere. Può essere il principio di un nuovo mondo: ma forse è solo l'inizio della fine...
Epico e politico, il film di Reeves mette due <tribù>, due famiglie, l'una di fronte all'altra, in un moltiplicarsi di specchi dove i riflessi però sono a volte sbiaditi: anche faticoso nella parte centrale, <Apes revolution> infatti punta al significato ma perde un po' di vista il significante, tra personaggi di contorno poco scritti e un'evoluzione della trama sin troppo scoperta. Ma se l'impianto non è perfetto, l'impatto è pur sempre notevole: bon fosse altro per la rivoluzionaria portata degli effetti digitali e della performance capture che permette a un attore <invisibile> con dei puntini verdi in faccia (un gigantesco Andy Serkis) di trasformarsi in uno scimpanzé più espressivo di Marlon Brando.