La Bier, l'etica e il ladro di bambini: date al film una (second) chance
Avrebbe potuto essere un film sul lutto, una risonanza emotiva sull'impossibilità di accettare l'inaccettabile: abitare l'assenza e fermarsi lì. Invece l'ultimo lavoro della danese Susanne Bier è un dolorosissimo thriller esistenziale, una pellicola schiacciata dalla colpa e soffocata dalla menzogna, la tragedia (attuale ma con molti echi a quella classica) di chi per riempire un vuoto ci precipita dentro. Un film a suo modo terribile, <Second chance>, che mette ancora al centro dell'osservazione (e dell'ossessione) dell'autrice di <Dopo il matrimonio> e <In un mondo migliore> (Oscar 2011 per il miglior lungometraggio straniero) la famiglia, la coppia: con i suoi tormenti, le dinamiche segrete, le contraddizioni, i laceranti dilemmi morali, le scelte estreme, la cappa del non detto, la pace solo apparente e piatta dell'inferno borghese. Una anormale normalità (quale di queste due parole, mi chiedo, andrebbe messa tra virgolette?) su cui si posa uno sguardo livido e angosciante (come il montaggio: serrato, ansioso) che alza a dismisura l'asticella della crudeltà dal momento in cui mette in scena, nel peggiore dei mondi possibili, la morte di un neonato, quello di un poliziotto perbene (Nicolaj Coster-Waldau, visto in tv ne <Il trono di spade>) e della sua bella moglie che quel figlio l'hanno desiderato a lungo...
Maltrattato molto oltre i suoi demeriti da parte della critica britannica e, sguaiatamente (e ingiustamente), anche da certi siti italiani, <Second chance> è in realtà un dramma etico e minaccioso che su un archetipo sfruttato sia dal cinema che dalla letteratura (il <changeling>, lo scambio di bambini) costruisce una storia tesa, sopraffatta, sempre sul punto di rottura: un'aggressiva (seppure intimista) rappresentazione umana in cui le strade di due famiglie corrono parallele, sovrapponendo l'una all'altra le proprie conclamate differenze, sacrificandole inconsapevolmente a un destino che farà a pezzi le certezze degli uni come quelli degli altri. E' vero, certe svolte sono telefonate (il genere a tratti inibisce il suo cinema dell'anima) e rispetto ai film che l'hanno resa famosa la Bier (che non è Vinterberg, anche se forse vorrebbe) sembra avere perso un po' di ispirazione e sicurezza: ma va detto d'altro canto però che l'autrice sa calarsi nell'oscurità senza paura di smarrirsi. Per metterci costantemente alla prova: valicando i limiti di una ragione che limiti non ha.