Star Trek, 50 anni in cerca dell'ultima frontiera
<Più lontano andiamo più mi chiedo dove stiamo cercando di arrivare>.
E' in viaggio nello spazio profondo da 50 anni tondi (lunga vita e prosperità...) per spostare, ogni volta, un metro più in là l'ultima frontiera: sopravvissuto a mille battaglie contro chi non si rassegna alla pace, certo di potere trovare la speranza anche nell'impossibile, il mito duraturo di <Star Trek> - cinque serie televisive di cui una, la prima, leggendaria (ed eterna), e 13 film all'attivo – celebra il mezzo secolo tentando di venire a patti (dopo le polemiche seguite a <Into darkness>) con i fans più duri e puri, rispettando le regole dell'ingaggio (immancabile ad esempio il mix tra azione e ironia, che forse anzi è la cosa che funziona meglio) per poi prendere a calci gli alieni cattivi addirittura a tempo di rock...
Fanta saga avanguardista, interrazziale, transnazionale, da sempre culturalmente aperta (dopo avere sdoganato nel '68 il primo bacio tra un bianco e una nera della tv americana, ora conta nell'equipaggio un personaggio dichiaratamente gay con famiglia arcobaleno, Sulu, mentre uno degli attori protagonisti, Zachary Quinto, che interpreta Spock, ha fatto outing da anni), <Star Trek>, arrivato al terzo episodio del reboot, segna il passaggio di consegne in cabina di regia tra J.J.Abrams (accusato di <alto tradimento> per avere rinverdito <Star Wars>, la franchigia rivale...) e il taiwanese Justin Li (suoi quattro <Fast and Furious>), che, dato smalto alle citazioni – da <Gli uccelli> di Hitchcock a <La grande fuga> - gioca la partita su tre campi differenti: l'Enterprise, un pianeta <proibito> e una grande base spaziale. Sono i tre luoghi dove i nostri eroi (tra cui Anton Yelchin, Chekov, drammaticamente scomparso in un incidente a soli 27 anni) combattono con l'apparentemente invincibile Kraal (cattivo spietato e complesso, ma non del tutto a fuoco), deciso a distruggere la Federazione...
Tanto spettacolare quanto, in alcune sequenze, confuso, <Star Trek Beyond> richiama le suggestioni della serie originale scatenando però gli effetti speciali e catastrofici della tecnologia odierna: il risultato è d'impatto, ma non abbastanza da rendere eccitante un universo (anche morale) già declinato (<mi sembra di vivere sempre lo stesso episodio>, dice Kirk e non a torto) molte volte. Forse anche perché il regista è frettoloso nel passare in rassegna dubbi e solitudine del capitano e dei suoi più cari amici, tra l'esempio (e la nostalgia) a volte insormontabile dei padri e il senso di un'unione (Merkel e soci imparino) che fa davvero la forza. Infine, una curiosità: pare che nel film faccia una comparsata, nel ruolo di un membro della flotta, anche Carlo Ancelotti. Lo cercano più dei Pokemon: bravo chi lo trova.
Fury: la sporca guerra del sergente Brad
<Il diavolo ha cura dei suoi>.
E' una casa con i cingoli e un cannone pronto a fare fuoco, il carrarmato: un buco di mondo nel fango che siamo, che calpesta giorni e illusioni, avanzando inesorabile verso il nulla. C'è più sfinimento che onore, più orrore che ricompensa (o rivincita) in <Fury>, il war movie, fisico e brutale, dello spilungone David Ayer, ex sommergibilista prestato al cinema (sua la sceneggiatura del primo <Fast and Furious>) virile. E' un film di sopravvissuti, di gente che ha smarrito (ma forse non per sempre) la propria umanità, il suo: che parte nell'epica di nebbie e cavalli bianchi, ma in realtà è un rude e stridente romanzo di formazione, una crudele iniziazione al dolore nella scuola dell'odiare e del resistere, dell'uccidere e del ricordare.
Là dove è più tangibile e meno sopportabile la claustrofobia etica di spazi anche moralmente angusti, la scoperta dell'inferno da parte del soldato Norman (l'emergente Logan Lerman di <Noi siamo infinito> e <Percy Jackson>), recluta chiamata a rimpiazzare lo sparatutto di un tank americano al comando del sergente, padre padrone, Don Collier (un segnato Brad Pitt), nella Germania, devastata e feroce, del '45. Combat film dai tanti padri (c'è molto di <Salvate il soldato Ryan>, ma qualcosa anche di <Platoon>), che fatica a reggere il paragone con una pellicola radicale e definitiva per quanto riguarda la storia (anche quella con la esse maiuscola) vista dall'interno di un carrarmato come <Lebanon>, <Fury> è comunque un solido esempio di cinema bellico, un po' piatto nella costruzione narrativa (già vista) e nella definizione dei personaggi (stereotipati, o tradizionali), ma spesso <fastidioso> (il pranzo a casa delle due tedesche) che è sempre un buon segno. Certo, tra pallottole, mortai e versetti della Bibbia, Ayer va sul sicuro e, immersa la sua guerra in un fotografia vintage tra il marrone e il verde marcio, si affida ad archetipi sin troppo immutabili del genere (il pivellino, il sacrificio, la stravagante <famiglia> dei brothers in arms), lasciando che la patina hollywoodiana tolga un po' di verità alla disperazione del contesto. La crudezza del racconto non cerca però alibi e in quell'epoca in necrosi dove Dio ha fatto apparentemente perdere le sue tracce, Ayer trova un ragione per vivere e morire.