Blackhat: il cinema liquido di cyber Mann
E’ un cinema liquido, che non corre né cammina, ma «scivola», quello di Michael Mann: con le sue immagini dense, quelle notti infinite di lancinante bellezza, i blu ghiaccio, i bianchi acciaio, i verdi acido. Un cinema che tiene la testa sott’acqua e la tira fuori solo quando necessario: morbido anche quando violento, imploso, romantico, malinconico, instancabile. Come la macchina da presa, in costante (anche quando impercettibile) movimento, sempre, come quest’epoca virtuale, accesa, connessa.
E così stavolta, cambiata la password al genere, Mann con «Blackhat» viaggia, senza cercare facili scorciatoie, sulle autostrade informatiche, dove i file vanno più veloci dei pensieri, girando un cyber thriller freddo e affascinante, zeppo di codici segreti, di silenzi da decrittare, di sussurri e rimpianti che non hanno un indirizzo e-mail: qualcosa tra il desiderio e il disagio, per qualche bit (e qualche dollaro) in più.
Un hacker che sta scontando 15 anni di galera (Chris Hemsworth di «Thor» e «Rush») viene liberato dall’Fbi affinché dia una mano a loro e al governo cinese a scovare un terrorista informatico che ha appena attaccato una centrale nucleare... Su una scacchiera già nota – ma in un’era totalmente nuova – Mann muove personaggi inverosimili utili però a realizzare un film ipertestuale che rompe con le regole del racconto classico per avvicinarsi (a costo di alienarsi il pubblico più «regolare») a un’esperienza, non solo in senso estetico, digitale. Un duello a distanza che si combatte, prima che in strada, sui server a cui il regista di «Insider» e «Collateral» dona il suo sguardo rotondo, potente, «sentimentale»: aprendo squarci di irresistibile suggestione. Come nella sequenza della prima sparatoria, un’esperienza anche a livello acustico: mentre guardie e ladri si smarriscono negli stretti e curvi cunicoli di un labirinto urbano e i vuoti e i pieni disegnano l’architettura di un’emozione.